DIOMIRA (Atto primo e secondo)

 

Foto di Martina Lavarda                                                      

D I O M I R A

Vita di una donna che ha vissuto 70 anni fa le stesse difficoltà e abbandoni di molte donne dei nostri giorni

ATTO PRIMO

Capitolo I

Un palazzo di ringhiera, in una piccola città veneta. Famiglie vivono in simbiosi, sopportandosi, baruffandosi, in situazioni da cui la povertà traspare e risalta in tutte le sue forme. Dieci anni sono trascorsi dalla fine della Grande Guerra.

 

E’ il rione più popolare della città, dove gli altri cittadini non vorrebbero abitare. Stradine strette, parallele al fiume, dove due carretti, quando s’incrociano, passano a malapena. Su una delle vie una piccola porta, un lungo corridoio buio con a lato le cantine, che sfocia sul fondo di un pozzo quadrato, buio anch’esso, con un solo rettangolo di cielo in alto. Qualche bicicletta sgangherata, appoggiata al muro scrostato e annerito, l’odore acre di urina, frutto delle normali sbornie di tutti i giorni, e non solo degli uomini. Scale all’aperto, che non hanno certamente l’eleganza e le bianche pietre della scala del Bovolo, trasmettono miseria, incutono timore e soggezione a chi non ci abita. Si sale un prima rampa, si arriva al primo pianerottolo, tre appartamenti, altra mezza rampa, un pianerottolo zeppo di biciclette, altra mezza rampa e di nuovo tre appartamenti. Ancora più su altri tre appartamenti e ancora più su, una scala di legno che porta ad un piccolo ballatoio, con a sinistra uno striminzito sottotetto, abitato anche quello e a destra una specie di gabinetto, con una rudimentale doccia, fatta con un secchio, dal quale l’acqua si riversa in una lattina di pelati con alcuni fori sul fondo, già un lusso per quei tempi. 

Certo che avere quiete in questa casa è praticamente impossibile. Grida e schiamazzi sono all’ordine del giorno e con essi liti e baruffe con tirate per i capelli tra le donne e minacce più serie tra gli uomini. Di bambini tanti, alcuni ben tenuti, nonostante la povertà, altri quasi abbandonati al loro destino, non considerati come soggetti primari d’amore, ma come ospiti indesiderati a cui non dare di più del minimo indispensabile perché non muoiano di fame. Una famiglia del primo piano, i Gallinella, tre maschi e due femmine, in scala dai 4 agli 8 anni. Su per le scale, sono appunto chiamati Gallinella, ma potrebbe non essere il vero cognome, sulle porte non c’è alcuna targa, ci si conosce così per nome e soprannome. Il loro probabilmente è un soprannome dovuto alla loro abitudine. Ladri di galline? Nossignore! Padre e madre, alla sera, fanno cenare i figli con qualche intruglio brodoso, qualche patata o polenta. Poi tutti a letto, i bambini! Allora loro due tirano fuori la loro cena: gallina, o pollo, o coniglio! Loro lavorano e devono sfamarsi bene, i bambini sono secondari, tanto si fa presto a farne degli altri eventualmente! Da qui il soprannome e da qui si può capire che non sempre i bambini sono amati e non è l’unico caso qui.

Proseguendo troviamo Isetta, donna di mezza età, di forme giunoniche, ma molto contenta di averle. Ha un marito, ma non conta niente, sempre ubriaco e non riesce a combinare più niente, in tutti i sensi. Ma Isetta i sensi li sente ancora, soprattutto quando vede Adolfo, giovane imbianchino che abita nell’abbaino. Si chiama Adolfo e fa l’imbianchino, il caso ha voluto così. A Isetta piace baciarsi le tette e farsi vedere da Adolfo continuando a ripetere: “Come me piaxe le me tete, come me piaxe le me tete”. Chiaramente nonostante la differenza di età, Adolfo non ci pensa due volte, e a volte sia quando lui sale le scale e arriva al primo piano, oppure quando lei sale all’abbaino per andare in bagno. Chiaramente non è che tutto questo passi inosservato, ma a nessuno interessa niente di non osservare, soprattutto agli uomini, quelli che si ubriacano meno, che qualche morso a quelle tette lo danno anche loro sicuramente e ben volentieri.

Nell’appartamento prima delle scale in legno che portano al sottotetto, abita Maria. Vita movimentata, di cui si parla per le scale, qualche lavoretto come domestica che l’aiutano per mantenere il suo vizio alcolico, tanti uomini, uno per ogni sbronza. Una figlia, Norina, dieci anni, capelli corvini, e lisci che le sfiorano le spalle e che incorniciano un volto pallidissimo, con naso un po’ allungato e degli occhi inespressivi. E’ sempre vestita con un grembiule nero con il colletto bianco, ma quello che impressiona di più è il suo modo di esprimersi che non ha nulla a che fare con quello di una bambina di dieci anni. Anche gli altri bambini, nonostante la scuola della strada, a volte non riescono a comprendere tutto quello che fa e dice con una malizia che nasconde l’inconsapevolezza che palesa dai suoi occhi. 

Qualche famiglia normale c’è, e cercano di vivere cercando di dare un’apparenza di normalità a questa esistenza. Fratello e sorella occupano due appartamenti con le loro famiglie. Lui ha sposato una vedova con una figlia e hanno avuto anche una figlia insieme. E’ una famiglia normale anche se, uno dei suoi lavori saltuari, potrebbe sembrare un po’ osèe: custode, usciere della casa chiusa di san Faustino. Tutto sommato per questi tempi un lavoro normale. Però le sue figlie crescono bene e al riparo dai pericoli del mondo. La moglie tiene la casa ordinatissima, e la luce, entrando dal poggiolo che dà a sud, sulla via parallela a quella dell’ingresso, inonda il soggiorno.  Il tocco di signorilità, in mezzo ad una mobilia modesta, è dato dai vasi di piante su dei trespoli in legno disposti negli angoli della stanza, sul poggiolo e sui davanzali,  tanto da sembrare di aver varcato la soglia di una casa diversa.

La sorella abita di sopra, con suo marito che lavora all’arsenale delle Ferrovie, suonatore in locali da ballo, dove riesce ad arrotondare le entrate per le sue bevute e le sue amate donne. Bello come non pochi, non ha difficoltà ad averne ai piedi. Due figlie, anche loro da concorso di bellezza, ma riservate e tenute a bacchetta in maniera severa dal padre. Basta un fischio per capire cosa vuole il padre, subito dentro casa! Fortunatamente, quando beve, ha la “ balota allegra”, si veste da marajà, asciugamano avvolto sul capo, una monetina schiacciata in fronte, e comincia a cantare “ E allora, con la bionda e con la nera, ogni sera, ogni sera, me ne vado a passeggià”. Un piccolo cucinino che prende luce da una finestra in alto, le porte tra le stanze non esistono. Vi è una stanza di passaggio, senza finestre, dove dorme la figlia maggiore con il marito, appena sposata e in attesa che si liberi un appartamento in periferia. Tutti passano davanti per andare nell’altra camera, una provvidenziale tenda a fiori separa un po’ la stanza dalla vista, ma non dai rumori. Nelle notti dei fine settimana bisogna sbrigarsi a dormire, perché quando rientra il suonatore e comincia lo show da “ balota allegra”, si termina di dormire finché lui non crolla a letto, sempre che non intervenga qualche litigata con i vicini.

Nell’ultimo appartamento, una donna rimasta recentemente vedova, sulla cinquantina, con 8 figli ancora in casa, dai 20 ai 12 anni, altri 4 fuori casa, ma con l’ultimo regalo del marito in grembo. Non è riuscita a disfarsene, anche perché non pensava di essere rimasta incinta, pensava alla menopausa o alle conseguenza dell’essere rimasta vedova con le ulteriori preoccupazioni. In ogni caso donna arcigna, che non si era mai sottomessa al volere del marito, in casa comandava lei e anche questa volta la decisione era presa. Nessuna intenzione di tenere in casa il nascituro. Aveva sentito in giro, che lo Stato si sarebbe occupato di lei vedova e del neonato, anche fino al ventunesimo anno di età, e sicuramente quella era la direzione da prendere. 

Ecco, Diomira viene al mondo e con l’aiuto dello Stato, parcheggiata in un istituto di suore che si occuperà della sua crescita, educazione e mantenimento.



Capitolo II

Freddo, questa è la parola che identifica la vita della piccola Diomira. Freddi cameroni con pavimento a terrazzo e grandi finestroni, che di inverno si incrostano di ghiaccio all’esterno. Letti singoli in ferro, con un bimbo in testa e uno ai piedi. Pareti smaltate e scrostate ad opera di qualche piccolo dito ribelle. Enormi stufe a legna in terracotta, che già da piccoli bisogna saper maneggiare e pulire. Ordine, disciplina, preghiere e punizioni. Orfani sempre in prima fila in processioni e manifestazioni, proprietà della Chiesa e dello Stato da esibire come forma di carità e di efficienza assistenziale. 

A scuola impara la cosa che più le piace, leggere. Leggendo può uscire da quelle mura, da quella gabbia, curare un po’ quella fantasia che non si è sviluppata in un simile ambiente. Le fantasie da bambino ti fanno crescere, vuoi somigliare agli adulti che prendi a modello, ma quali modelli possono crearsi a dei bambini cresciuti al freddo dei sentimenti? Sono in balia al primo briciolo di calore che possano percepire, che esso provenga dalle pagine di un libro o da una qualsivoglia persona, senza saperne effettivamente le intenzioni.

Anche crescere un solo figlio può essere difficoltoso e con risultati non sempre scontati, e così, in mezzo ad un centinaio di figli dimenticati, cresce Diomira, tra le intransigenze e le cattiverie delle molte suore, che lo sono diventate per mestiere o per il volere di altri, e tra la dolcezza delle quelle poche suore che lo fanno per amore di quel Dio che diceva lasciate che i piccoli vengano a me. 

Con il periodo bellico, sotto i bombardamenti degli alleati, a piccoli gruppi, i bambini vengono sfollati in case più sicure. Diomira ha 15 anni, è una donna, aiuta le altre più piccole. La sussistenza così diventa più difficile, il cibo non riesce ad arrivare, qualche volta bisogna anche arrangiarsi. Per fortuna, nelle difficoltà, i poveri si aiutano ed è solo grazie all’intervento di altri disgraziati, se i bambini riescono a superare la guerra e la fame.

La guerra è finita, si ricostruisce. Anche la vita di Diomira è tutta da costruire e le suore, oltre a obbligarla a fare i lavori  domestici pesanti nell’istituto, le insegnano il ricamo e il cucito. Se andrà bene, il suo futuro sarà a servizio di qualche signora, ormai è tardi per lei darle un’istruzione adeguata, non era certo questo lo scopo delle istituzioni. Comincia anche a prendere dei soldi per qualche lavoro di ricamo fatto per conto delle varie matrone in città. Le suore le creano un libretto alle poste, al portatore, per assicurarle un minimo di serbatoio nel momento dell’uscita, a ventuno anni, dalla loro protezione. Lei lavora e vede il suo piccolo tesoro crescere. L’uscire da quel guscio forse la spaventa, non sa nulla del mondo là fuori, ma forse tutto sommato neanche è cosciente del fatto di doversi preparare a questo salto. E’ come una nuova nascita, uscire nuovamente dal liquido amniotico e cominciare a respirare da sola l’aria, tagliare il cordone ombelicale in quanto non ci sarà ritorno. Compiuti ventuno anni uscirà da quella porta e non troverà né maniglia, né chiave, per aprirla nuovamente.

Mancano pochi mesi alla scadenza fatidica, estate del 1949. La superiora la manda a chiamare per darle la notizia: “Una bella notizia per te. Domani comincerà la tua nuova vita. La tua famiglia ti rivuole a casa. Verrà tua madre a riprenderti, prepara le tue cose”. Diomira pensa: ”Come può essere una bella notizia? Cosa succederà domani? Che abbia capito che mi vuole bene e che ora non ha più difficoltà per avermi a casa con lei?” La mente vaga e con essa i pensieri che si fanno sempre più positivi, sempre più innocenti e semplici, come lo è il suo essere. 

Ma chi non è madre, se non per aver inconsapevolmente concepito e poi partorito, di certo non può esprimere sentimenti d’amore. Non l’ha mai fatto e sicuramente non lo farà neanche adesso.

Il domani arriva e la madre si presenta con la sorella maggiore. Nel passato si era fatta vedere qualche volta finché era piccola, ma Diomira nemmeno si ricordava del suo viso e della sua voce, forse non la aveva neanche mai sfiorata per una carezza o rivolta una parola. Erano visite tanto per rimarcare che non era da adottare, ma solamente in affido all’istituto, che lei era madre, vedova in difficoltà e aveva bisogno delle istituzioni per allevare la figlia. La sua indole dispotica e esente ad ogni affettività, si rivela appieno nell’occasione. Il suo piano, saputo delle abilità della figlia, è ben architettato e ora ne dava corso. Si ritrova anche con un regalo extra, il libretto al portatore di Diomira, in quanto non ancora maggiorenne, con tutti i suoi risparmi, con un saldo di Lire 118.355, più gli interessi maturati e maturandi dal 1946. 

Diomira esce dietro alla madre da quella porta. Lei cammina dietro a quelle due che avanzano sotto i portici con fare da bersaglieri, la madre è vecchia, ma ancora in gamba. Le due confabulano a monosillabi, e Diomira procedendo a testa bassa, capisce che il futuro non le riserverà più la sicurezza, anche senza libertà, di cui ha goduto finora. 

Sale quelle scale, ancora maleodoranti e sempre scrostate, anche se per lei completamente nuove. L’odore d’urina non è certo quello dei bambini dell’orfanotrofio. Le bestemmie di una baruffa, che provengono da qualche appartamento, la fanno trasalire e si fa il segno della croce. La madre e la sorella si mettono a ridere a crepapelle.

Una scodella di caffellatte per cena e viene informata del suo futuro. Tra due giorni arriverà un signore che la porterà con sé in Sicilia, a servizio di un avvocato in un grosso centro vicino Palermo. “Sarà il modo di aiutare la tua famiglia, i soldi di anticipo me li hanno già dati e tu rimarrai là a servizio finché lo dico io. Non avrai spese e loro ti manterranno con il vitto e l’alloggio.”

Nessun commento da parte di Diomira, tanto la sua vita non sarebbe cambiata di molto da quella che è stata fino ad adesso. Dall’istituto ad una casa, dove altri avrebbe provveduto a lei in cambio del suo lavoro, non la sfiora minimamente il pensiero di essere stata venduta, per lei è la normalità, va bene così!



Capitolo III

L’agitazione e l’inquietudine del viaggio la pervadono, sono due notti in cui non le riesce di dormire! Parte dell’agitazione è causata dal dover salire in treno. Non ne ha mai visto uno, è stata solo una volta vicino alla stazione, quando aveva 10 anni, per l’arrivo del duce a sventolare la bandierina che le era stata consegnata e di sorridere sempre. Non sarebbe stato difficile, era un momento in cui ci si poteva sfogare e a sapere chi fosse quello di cui tutti parlavano e tuti volevano vedere. Le è capitato, finché era sfollata, di vedere in lontananza il pennacchio di fumo spuntare vicino all’orizzonte, ben oltre la fila di alberi che chiudeva la vista e a volte, a seconda di come girava il vento, è riuscita a sentirne il fischio. Con le sue compagne avrebbe voluto avvicinarsi di più alla ferrovia, per vedere com’era fatto il treno, ma quelle camminate per i campi erano fonte di sostentamento per tutti loro. Se si riusciva a raccogliere un po’ di “pissacani”, si sarebbe potuto mangiare qualcosa di più della solita polenta. Se qualche rana fosse finita nel “fìnfolo”, nascondendo la verità ai più piccoli, si sarebbe potuto metter dentro qualcosa di sostanzioso. Mentre, quando i campi erano troppo bagnati  e ci si sarebbe impantanati con le “sgàlmare”, lungo i muretti, appena dopo la pioggia, c’erano le “lumèghe”, che dopo opportuna spurgata dentro la segatura e ben coperte perché non possano fuggire, sarebbero state ancora più sostanziose. Ma quello che agitava di più Diomira era quello che per la prima volta avrebbe affrontato la vita da sola, viaggiare con un’altra persona e per di più uomo e non era un prete o l’anziano custode tuttofare dell’istituto.

La stazione è nuova, finita di costruire da qualche mese, è scintillante, con i marmi del pavimento traslucidi di un color rosato. I cristalli e gli specchi del bar, riflettono e ingrandiscono tutto l’ambiente. L’appuntamento è vicino alla biglietteria. Un signore, basso, baffo nero, con un berretto dalla strana forma che qui non se ne vedono, non ci si può sbagliare, è un forestiero. Vicino a lui altre due donne, età indefinibile, forse poco più che ragazzine, racchiuse in abiti contadini più simili a dei grembiuli scuri e con dei fazzoletti in testa, come non se ne vedono più in città, sicuramente non splendenti nel volto come lo è Diomira. Qualche parola, un finto bacio di commiato. La vaporiera dell’accelerato arriva sbuffando. I freni fischiano sul ferro delle rotaie e si ferma. Le carrozze di terza classe sono in fondo, bisogna camminare. Sulle panche in legno del vagone c’è solo un posto dove si accomoda il forestiero, le ragazze rimangono in piedi, a testa bassa. Il treno si ferma ad ogni piccola stazione fino a Padova, dove il forestiero fa un cenno di scendere a tutte e tre, si deve cambiare treno. Dopo circa un’ora di attesa arriva il treno da Venezia, destinazione Bologna. La terza classe fortunatamente ha qualche posto libero e anche le ragazze riescono a sistemarsi. La vaporiera toglie il freno, dà uno scossone e comincia a sbuffare, lentamente riprende la sua corsa nelle campagne del Veneto e dell’Emilia. Potrebbe sembrare un “Treno della felicità”, che tanti ne partono dal sud, per portare in Emilia bambini che rischiano fame e patimenti, se rimanessero nei loro paesi, ancora devastati economicamente dopo la guerra. Ma non è così, la direzione del treno è all’incontrario e con destinazione l’ignoto. Diomira ha il naso incollato al finestrino e guarda quegli alberi sfilare veloci, tanto da non riuscire a distinguerne i particolari, e così abbandona il suo sguardo e la sua mente all’infinito vuoto, imbambolata, quasi ipnotizzata. Qualcuno le sposta il viso facendola ritornare alla realtà. Si è avvicinato al finestrino per prendere un po’ d’aria nel caldo soffocante della mattinata estiva, per poi ritrarsi non appena la fuliggine della vaporiera gli entra negli occhi, alzando  così istintivamente il vetro, ripiombando nel caldo e nell’odore dei miseri pasti che si stanno consumando su quelle panche di legno. 

Diomira ha perso il conto dei cambi di treno. A notte inoltrata il piccolo gruppo arriva a Roma, una stazione enorme e dalle poche parole che si scambia con l’accompagnatore , riesce a capire di restare attenta, di non perdersi. Sono tutte e tre spaventate, intimorite e non si allontanano da dove stanno aspettando il treno notturno per Reggio Calabria. Solite panche anche su questo treno. Il sonno vince, anche se a stento la ritrosia, delle ragazze a chiudere gli occhi. Il viaggio prosegue fino alla mattina successiva e ha termine  ad una stazione tra Basilicata e Calabria. C’è una interruzione e bisogna salire su un torpedone, come lo chiamano ancora qui, per raggiungere la stazione più vicina. Scendendo dal treno e andando verso la fermata del torpedone, Diomira vede ancor di più le distruzioni della guerra e qui la ricostruzione deve ancora ricominciare. Un signore gentile, vendendola disorientata e tentando di scambiare due parole, le dice che era già arrivata l’elettricità su quella linea, che moderni treni viaggiavano velocissimi, senza bisogno del carbone ed ora è tutto da ricostruire a causa della stupidità e della brutalità della guerra. 

Sul torpedone, per strade anch’esse da ricostruire, sul sedile Diomira trova un giornale, uno di quelli che erano proibiti in istituto, uno di quelli che, se le suore te lo trovavano, venivi punita severamente; un fotoromanzo. Lei sa che alcune delle sue compagne  di istituto a volte li guardavano, soprattutto quando le suore dormivano e in qualche modo riuscivano a farsi luce e leggerli, ma era sempre un evento, qualcuno doveva pur sempre far penetrare quel giornale attraverso le strette maglie dei controlli delle religiose, e loro si accorgevano di tutto, quasi avessero un radar per conoscere quali sono le pruderie delle giovani donne. Dapprima si siede sopra, come non lo avesse notato. Si chiede se sia lecito leggerlo, se le proibizioni delle suore fossero ancora valide, quanti Pater Ave Gloria o altre preghiere dovrà dire nel momento che avesse dovuto confessarsi.

Ma la voglia le preme lo stomaco, cosa c’è in quei giornali che non conosce? L’amore dicevano le sue compagne di istituto, ma cos’è l’amore? Si appoggia su di una coscia sollevando l’altra e con la mano toglie il fotoromanzo da sotto il suo sedere. Comincia a sfogliarlo, a guardare le figure, a leggere di baci, di passioni. Vede volti che guardano altri volti, che scambiano occhi. La sua mente si perde dentro quei teneri abbracci e su quelle labbra che si sfiorano per un bacio. Sente che, se questa fosse la vita reale, le è stata detta una grande bugia, che lei non conosce nulla e non sa come affrontare la vita.  Ma è proprio qui che Diomira decide che di Pater Ave Gloria nella sua vita ne ha già recitati a sufficienza, che di chiese non ne vuole più sapere, anche se con grande fatica, vuole alzare lo sguardo e guardare il mondo, pur sentendosi completamente inadeguata e disarmata. Non intende più rinunciare a leggere cose diverse dai libri dei santi della biblioteca dell’istituto, dove le ripetevano sempre, che se imparava bene da quei libri, avrebbe potuto farsi suora e salvarsi, oppure ritornare nel mondo delle donnacce e perdersi nel fuoco eterno. Comincia a percepire, dal momento di quel istintivo atto di ribellione, che il mondo dove era vissuta fino ad allora, il mondo delle suore, si reggeva su queste paure, come su tante altre paure si regge il mondo del quale non ne voleva più sapere. Nello scendere dal torpedone, Diomira infila nella sacca il giornale.


Capitolo IV

Per la prima volta, che tante ve ne sono in questo viaggio, Diomira si trova in mare, su di una nave ad attraversare la striscia blù dello stretto di Messina. Aveva sentito favole dalle suore di due mostri, dei quali non ricordava i nomi, uno su una sponda e uno sull’altra, che facevano a gara per mangiare barche e uomini. E’ spaventata ed aspetta con ansia il trascorrere di quei pochi minuti di attraversata, la sua semplicità e ingenuità la fa stare in guardia dall’eventualità che possa uscire, da un momento all’altro, qualcosa dal mare e che la possa inghiottire con tutta la barca. Però, con l’approssimarsi della costa siciliana, si accorge che è svanito l’odore acre che era in treno e nel torpedone, l’aria, nonostante la calura è fresca. Chiude gli occhi, si abbandona al vento in faccia, e avverte che esso trasporta delle goccioline che le bagnano il viso.  Passandosi la lingua sulle labbra, avverte il sapore salato dell’acqua di mare. Subito si stupisce non capendone il motivo, poi si rilassa e ripassa la lingua sulle labbra nuovamente compiacendosi di quella sensazione.

Dal porto sale direttamente su un treno in partenza, con due locomotive sbuffanti, una davanti e una dietro. Chissà quanto veloce andrà questo treno con due locomotive, pensa Diomira. Ma ben presto si accorge che sta abbandonando il mare e il treno sta salendo su per montagne con la vegetazione completamente bruciata dal sole come fosse già autunno. Vallate, ponti, gallerie, fumo da tutte le direzioni. va così lento in alcuni tratti, che si potrebbe scendere, riprendere fiato e risalire più avanti. I finestrini sono chiusi e non passa aria. Visto che altri lo facevano sui treni precedenti, tenta di tirar giù il finestrino, ma il forestiero le blocca la mano, tanto da farle prendere paura. Ben presto ne comprende il motivo. La lunghissima, nera galleria di valico. Si viaggia all’interno di una nuvola di fumo e anche se i finestrini sono chiusi, l’odore acre penetra lo stesso a bruciarti le narici. Tutti si portano un fazzoletto al naso e alla bocca, cercando di respirare il meno possibile. La galleria è interminabile, non si capisce se a causa della sua lunghezza o della lentezza del treno. Più di un quarto d’ora, interminabile. Il ritrovare la luce e l’aria è come il risveglio da un incubo notturno. I freni delle carrozze fischiano. Ora i macchinisti, dopo una bella mangiata di carbone, si devono impegnare a frenare nella discesa che porta nuovamente al mare. Sosta alla stazione, bisogna aspettare il treno che arriva nel senso contrario per poter procedere, e così per molte altre volte. Diomira nota, candidamente nella sua ingenuità, il cambiare della vegetazione. Nulla è uguale alla campagna dove doveva procurare cibo per sfamare lei e le ragazze sfollate. Palme come quelle del libro dove si vedevano i soldati italiani nel deserto. Piante simile a cactus, ricoperte di spine e frutti arancioni, abbarbicate ovunque, anche sui muretti della ferrovia, quasi a creare una siepe invalicabile come di filo spinato.

Dopo quasi 8 ore di viaggio, alla stazione di S. Flavia, lo straniero fa un cenno alle tre ragazze di scendere che il viaggio era terminato. Diomira pensa già al meritato riposo, di aver posto fine a quella fatica, ma la attende ancora la camminata in salita, fin all’abitazione del padrone. Mezz’ora di salita, nella quasi penombra del dopo tramonto. Non risulta difficoltoso il procedere, non è ancora notte, ancora qualche bagliore a ovest. La luna è già in cielo luminosa,  si può tranquillamente camminare senza paura di sbattere su qualche ostacolo. In un momento di pausa del forestiero per riprendere fiato, Diomira si volge indietro verso il mare. Quello che vede le fa venire a mente un arco, con a sinistra un monte a picco sul mare  e a destra la torre del castello, flettenti per agganciare la corda bianca dell’orizzonte. La luce riflessa sulle onde, la freccia da scagliare con i propri sogni e desideri  verso il luminoso bersaglio in cielo. 

Due pilastri immettono nella corte della villa, ma il piccolo gruppo non li oltrepassa, svolta prima su di un sentiero che lambisce il bordo del muretto di cinta, e dopo aver compiuto un semicerchio attorno ad esso, si fermano in una casa rurale, nei pressi di un ingresso secondario alla villa. All’interno una famiglia, con 4 bambini. La donna mostra alle nuove arrivate la stanza dove dormiranno. Quattro letti tutti vicini, in un anfratto della casa senza finestre, da condividere con un’altra donna, la quale ha già preso posto nel letto che sembra migliore. Il forestiero sta confabulando con il capofamiglia, ma è inutile tentare di carpire qualcosa del colloquio, la lingua è del tutto incomprensibile, molto diversa dall’italiano che a scuola hanno tentato di insegnarle. Nonostante la calura del giorno, la temperatura all’interno della casa è fresca e la stanchezza è molto più forte della preoccupazione del domani. Le ragazze, abbandonate da ogni resistenza fisica e mentale, prendono sonno immediatamente.

Un fischio del treno fa svegliare Diomira che pensa di essere ancora in viaggio. E’ il treno giù nella valle di Santa Flavia che avvisa del suo arrivo i viaggiatori in attesa alla stazione. 

E’ già l’alba e gli adulti sono in piedi. Qualche cipolla con un pezzo di pane per colazione. La moglie rivolge parole incomprensibili verso le ragazze, a cui tutte e tre non sanno cosa rispondere se non che non capiscono. Per fortuna, quando parla, la donna accompagna le parole con ampi gesti che diventano il traduttore simultaneo per le altre due ragazze. Diomira dovrà sforzarsi parecchio ad imparare a capire e rispondere a gesti in quanto, in istituto, era proibito muovere le mani parlando. La donna porta un catino d’acqua con il quale devono lavarsi tutte e tre e mostra loro un gabbiotto dietro casa dove poter fare i propri bisogni. 

Le ragazze vengono portate all’interno della corte dove, dopo poco, arriva un signore che il marito e la moglie, togliendo il berretto e facendo un cenno d’inchino, salutano chiamandolo Vossìa. La donna ìntima un cenno di inchino anche alle ragazze. Vossìa si compiace dei nuovi arrivi e parlando con il marito, che evidentemente è il fattore, dà istruzioni di come impiegare le nuove arrivate. Poi passa in rassegna le ragazze e soffermandosi su ognuna di loro, in italiano, indica loro i compiti a cui saranno assegnate. Le due compagne di viaggio saranno addette ai lavori nei campi e non le trattiene più del tempo necessario a chiedere loro il nome e redarguirle che mangeranno solo se lavoreranno. E’ il turno di Diomira. Al sentire il nome, Vossìa si mette a ridere sguaiatamente. Lei arrossisce pensando di avere un nome buffo, come del resto aveva sempre pensato anche lei. 

-“Dove ha preso ispirazione sua madre per darle questo nome inconsueto?”

-“E’ stata una suora in istituto”

-“Deve sapere che anche la figlia di mio cugino si chiama Diomira, perchè lui un giorno, nella Tavernetta del tiro al piccione dei Florio a Palermo, aveva conosciuto l’attrice del cinema muto Diomira Jacobini, innamorandosene perdutamente. Ma i suoi avevano già combinato un matrimonio a cui lui non potè sottrarsi. e ui cosa fece? Alla primogenita, diede nome Diomira, un modo per avere sempre accanto la sua amata, il bello è che tutti lo sanno, moglie compresa.”

Diomira si sentiva un po’ più a suo agio, e Vossìa le dice che  lei è praticamente un regalo per la moglie, un’aiutante per abbellire i corredi di casa e la futura dote della figlia primogenita. Avrà una stanza sua nel sottotetto della villa, che sarà anche il suo laboratorio nelle ore in cui non sarà richiesta dalla Signora. In quel momento si sente fortunata, pensava già di finire a lavorare i campi e a mungere mucche e pecore, ma evidentemente sua madre, almeno questo, aveva venduto bene le sue capacità.

Viene fatta accomodare nella stanza adiacente le cucine, dove solitamente la Signora parla alla servitù. Una signora vestita di grigio scuro, con una fine eleganza le si avvicina. Il volto scavato, pettinata con uno chignon in modo da lasciar scoperti gli orecchi dai quali pendono due orecchini d’oro   con pietre nere. Gli occhi neri, uno sguardo severo che ti penetra già con il suo giudizio, nessuna inclinazione alla immediata risata come il marito. Non chiede nulla e le ordina di seguirla. Sale le scale ampie che partono dal salone centrale, supera il primo piano, le scale diventano strette fino a raggiungere il sottotetto. Qui un’altra donna sta ricamando delle lenzuola. La Signora  le parla in dialetto, poi rivolta a Diomira le ordina di fare tutto quello che la donna le comanderà in quanto saranno come fossero i suoi ordini. Senza nemmeno averle chiesto il nome, dopo uno sguardo al lavoro della donna, con fare silenzioso, la Signora scende le scale per ritornare alle sue stanze.



Capitolo V

Diomira, in questa sua nuova condizione di schiavitù, non si sente in una situazione molto diversa dal resto della vita passata in istituto, lavora, tiene la testa bassa e cerca di non farsi notare. Non pensa, sa che quello è il suo compito, è tutto normale, è quello per cui è nata. In ogni caso, un po' alla volta, riesce a comprendere anche quello che le viene detto con quel linguaggio strano, anche se ha dovuto subire più di qualche strigliata per via di qualche lavoro non compreso nello svolgimento, ma senza capire il significato degli improperi, ma avvertendo pienamente il dolore per la tirata di capelli. Anche la padrona di casa, sempre col suo fare arcigno, comincia a rivolgersi a lei in modo diverso, anche se può sembrare esagerato, quasi affettuoso. Il lavoro di Diomira comincia ad essere apprezzato anche dalle amiche della Signora, che non nascondono la loro ammirazione e a volte, anche la loro invidia verso la padrona di casa. Un giorno la Signora convoca Diomira nel salottino a fianco alle cucine. Le dice che le viene concesso, dopo il lavoro, nei momenti di pausa, di ricamare e lavorare anche per le persone che lei le indicherà, le quali la ricompenseranno, un tanto a pezzo, per il lavoro svolto. Questo comportamento era dettato anche dalla paura dei rigurgiti e della nuova ventata di libertà seguita alla fine della guerra e ai fatti di qualche anno prima a Portella della Ginestra. Nessuno è più disposto a subire le angherie del padronato e viene reclamata la terra. Un cambiamento di rotta indispensabile per padroni più illuminati e sicuramente Vossìa fa parte di questi, o per lo meno è convinto che ci sia solo da perdere attuando un comportamento conservatore. In verità la Signora sembrerebbe riottosa a questo nuovo corso, ma l’indirizzo dato da Vossìa è molto chiaro, mantenere il potere facendo pensare di essere dalla parte del nuovo.

Con i primi soldi che guadagna Diomira si reca alla stazione dei treni, dove vicino c’è un’edicola, e quasi con vergogna, acquista un fotoromanzo. La lettura la assorbe completamente, ma si accorge di aver bisogno di leggere di avventure d’amore e scopre così i libri di Liala. Si sprofonda in quei racconti, sente che manca qualcosa nella sua vita. Ricama corredi per ragazze che si sposeranno a 18 anni e lei ne ha quasi 22 e qui sarebbe già considerata una zitella. Per fortuna è una forestiera e viene guardata con occhi diversi rispetto ad una ragazza di qui, anzi non viene per nulla considerata, è una diversa.

Diomira sta scoprendo la vita, vede in quei fotoromanzi un modo diverso di vestirsi, molto diverso da quegli stracci che indossa, che la fanno sembrare una vecchia.  Vorrebbe anche lei vestirsi come Sofia Lazzaro, la giovanissima attrice in alcune delle storie lette e probabilmente, con i soldi che sta mettendo da parte, potrebbe comperarsi la stoffa e cucire il vestito da sé. Ma dove comperare stoffe alla moda, non sicuramente a Santa Flavia e tanto meno a Porticello. Ma l’occasione le capita perché, la Signora vuole che la accompagni a fare delle compere di tessuti per arredamento e della stoffa alla moda per un abito per la Festa della Patrona S. Anna e quella si trova solo in un negozio di tessuti di Palermo, il migliore di tutta la Sicilia. 

La Lancia Ardea è pronta, la Signora siede dietro lasciando il posto accanto al guidatore a Diomira. In un’ora si arriva a Palermo per il lungomare. E’ una città fortemente danneggiata dai bombardamenti che con molte difficoltà tenta di riprendere vita. La Signora, con un gesto della mano, richiama l’attenzione di Diomira: “Ecco, vedi quella palazzina stile liberty moresco, quella è la Tavernetta. Ricordi quello che ti diceva mio marito, sull’altra Diomira? Ecco qui si sono conosciuti e a quello che dicono anche amati. Guarda che distruzione! Ora nella palazzina c’è un magazzino dei soldati, è tutto in rovina. Prova immaginare, qui si veniva a fare i bagni, tutta Palermo aristocratica si dava appuntamento qui. Adesso non esiste neanche più la spiaggia. Tutti i detriti delle case bombardate sono stati gettati in mare qui di fronte, e il mare si è vendicato, ha distrutto la spiaggia, non esiste più nulla, solo sporcizia, mattoni, niente di più, tutto finito! E’ il segno dei tempi, la fine di un’epoca d’oro, non sarà più come prima.”

Diomira osserva, vede gli amanti, come in un fotoromanzo, baciarsi, guardarsi negli occhi, far palpitare vicini i cuori. Sogna anche lei il suo fotoromanzo, sogna di saper guardare negli occhi di un uomo, ma qui nessuno può interessarsi a lei che è una diversa, con un’altra lingua, con un colore di pelle talmente chiaro che pare venire dalla luna. E l'abito che sta inseguendo è per lei, per potersi mischiarsi alla folla di una festa di paese o anche solo per poter fare una passeggiata e non sentirsi addosso quegli sguardi di umiliazione e di giudizio per la sua diversità.

Il conducente parcheggia l’auto di fronte al grande magazzino di tessuti, apre la portiera alla Signora. Odore di stoffa e legno misto a polvere. Commessi in camicia bianca e pantaloni scuri con il metro da sarte al collo. Grandi banconi marroni su cui con maestria i commessi srotolano le pezze di stoffa quasi facendoli volteggiare in aria, per poi stendere la stoffa e misurarla con un metro di legno. Il taglio della stoffa con quelle forbici enormi è uno spettacolo, praticamente non un solo movimento a tagliare delle forbici, ma solo una corsa della lama inferiore su di una pista invisibile contenuta nella stoffa, che come risultato dà un taglio netto, perfetto. Diomira resta accanto alla Signora che non chiede consigli ma la carica solo di pacchi da portare in auto. Poi la lascia nel salone per recarsi al piano superiore per provare le stoffe per il prossimo vestito, seguita dalla sarta con dei cartamodelli di campione. Diomira aveva già adocchiato una stoffa che avrebbe potuto fare al suo caso, e chiede al commesso quanta ne occorra per fare un vestito per lei e quanto sarebbe costato il tutto. Il commesso fa i suoi calcoli e fa impallidire Diomira con il prezzo, non riuscirà mai a prendere quella stoffa, al massimo potrebbe comperare la stoffa per un fazzoletto con i soldi che ha. Chiede timorosa se vi sono altre stoffe similari più a buon mercato. Il commesso, che per esperienza sapeva guardare aldilà delle apparenze e già immaginare la persona con la sua stoffa addosso, appoggia sul banco uno scampolo di stoffa bianca candida “come la sua pelle signorina” e piccoli pois rossi. “Nessuna signora riuscirà mai a farsi un abito con questa stoffa, ma lei con il suo fisico e magari qualche accorgimento sicuramente ce la farà”. Ma il prezzo è ancora troppo alto e Diomira retrocede abbassando il capo. Il commesso sparisce un attimo  e fa ritorno con il titolare del negozio. “Ho sentito dalla sua padrona che lei è molto brava nel ricamo e che l’ha imparato dalle suore. Ho 6 tovaglie da ricamare e da consegnare in due mesi, pensa di farcela? Se mi dice di sì le consegno lo scampolo e non voglio una lira, a parte vedere il risultato finale ottenuto con la stoffa quando verrò a prendere da lei le lenzuola”. Diomira non sta nella pelle, si fa mostrare le lenzuola da ricamare e non le sembra vero che siano per un neonato che dovrà nascere e pertanto sono piccole. Sa perfettamente che non avrà problemi nell’eseguire il lavoro e accetta. Carica in tempo le lenzuola e la stoffa in automobile prima del ritorno della Signora e  poter così ritornare felice a Santa Flavia!

Diomira lavora di notte per quei lenzuolini e li termina molto prima del tempo previsto. Ora può dedicarsi al suo di vestito, è il 15 di luglio e mancano solo 11 giorni alla festa della Patrona. La donna che lavora con lei le ha procurato dei cartamodelli all’ultimo grido, ma capisce che la stoffa non le basterà mai per fare un vestito così. Riesce in qualche modo a copiare i cartamodelli e a ridurli fino a che la stoffa possa essere sufficiente per quel vestito. Ha visto una foto della Lazzaro con un vestito con le bretelle, questo le farà risparmiare un bel po’ di stoffa evitando di arrivare fino alle spalle. In più, invece di farlo svolazzante, lo ridurrà a forma affusolata sulle gambe come certi tailleur delle dive del cinema. 

E’ il giorno della consegna dei lenzuolini e puntuale giunge alla villa il titolare del negozio di tessuti. Reca con sé delle stoffe ordinate dalla Signora. Quando arriva nell’atrio trova i lenzuoli già pronti. Il lavoro lo soddisfa notevolmente e sapendo di aver fatto una cosa all’insaputa della Signora di casa, le concede uno sconto extra sulle stoffe appena consegnate, che quieta il fastidio da essa provato. Il titolare del negozio perora la causa di Diomira e ricorda alla Signora che, perché il lavoro ordinato sia completo, vorrebbe vedere il risultato ottenuto con quella stoffa. La Signora chiama Diomira e le ordina di scendere con il vestito che sta preparando, e che su richiesta del titolare del negozio, lo deve indossare. 

Diomira è impacciata, deve ancora fare gli ultimi ritocchi, ma non ha alternative e lo indossa. Scende le scale, il vestito è stretto e la costringe a piccoli passi se non vuole che il filo d’imbastitura salti, inoltre è a piedi scalzi. I presenti ammutoliscono, le donne si fanno un segno della croce, gli uomini arrossiscono. La Signora è visibilmente imbarazzata, ma non per la scandalosità del vestito, è abituata a ben altro fra la gente che conta, ma che il centro della casa si sia spostato da lei a Diomira. D’altra parte però, comprende la bellezza che da lei scaturisce, che è pari alla semplicità e alla ingenuità con cui lo indossa. Il titolare del negozio di stoffe non può che essere sincero dicendo a Diomira che non aveva mai visto indossare un abito a quel modo, per quanto poco signorile ed aggraziata fosse, quell’abito rende incantevole la sua bellezza. Diomira è fortemente imbarazzata, sente per la prima volta da quando è arrivata, ma del resto anche nella sua vita, di essere apprezzata e non evitata, rifiutata, abbandonata. E’ solo un momento, lei sa qual è il suo posto.




Capitolo VI

Nella casa il lavoro da qualche giorno è frenetico. All'alba tutti sono già all'opera. Gli invitati arriveranno poco prima delle 11,00, dopo la Santa Messa, per un ricevimento. Arriveranno il Sindaco, il maestro, il medico, il farmacista con altri notabili della zona e anche il maggiore interessato alla festa, il parroco. L'occasione è il dono che, la Signora e Vossìa, hanno voluto fare alla nuova parrocchia di Santa Maria della Lumera di Porticello. Un calice, una pisside e una patena in argento, e dei paramenti sacri, per le celebrazioni dei vari giorni della Settimana Santa e per la processione della Madonna del Lume. Paramenti realizzati ovviamente dalle mani di Diomira, anche se costretta ad ascoltare i suggerimenti della Signora, che non sapeva nemmeno infilare l’ago. Anche le suore le affidavano questo compito, ma poteva copiare da altri paramenti, magari apportando dei cambiamenti su qualche elemento o ricamo. In ogni caso non si era persa d'animo, il risultato era, come tutto quello che usciva dalle sue mani, impeccabile. 

Quando si tratta di mangiare, di entrare in casa signorile e poter stare assieme alle persone più in vista della zona, non manca mai nessuno. Tutti ammirano i doni, facendo finta di essere interessati alle spiegazioni della Signora su ciò che lei voleva significare sulle raffigurazioni dei paramenti sacri e sui ceselli operati dall'orefice sul calice. Diomira rimane accanto ai paramenti per stenderli od esporli in modo più adeguato alla bisogna. La Signora non accenna mai al fatto che i ricami sono stati eseguiti da Diomira, ma il cappellano, lasciando per un attimo la compagnia, le si avvicina e le rivolge la parola: “Hai realizzato tu i ricami Diomira?” Tutti tacciono, la domanda è come una fucilata, tutti osservano verso i paramenti. Diomira è interdetta, sa che ogni risposta potrebbe essere sbagliata, vorrebbe tacere ma con un fil di voce fa uscire: “Ho solo aiutato la Signora”. Ha dato la risposta giusta e lo capisce dallo sguardo non accigliato della Signora, ha lasciato il merito a lei. Però non capisce una cosa. Non è mai andata a Messa, è praticamente invisibile e senza mai essere stata presentata conoscono il suo nome? E tutta questa gente adesso si accalca vicino ai paramenti, quando prima nessuno li aveva praticamente notati? E soprattutto, quando mai gli uomini si erano interessati ai paramenti sacri e ad esaminare i grappoli d'uva ricamati o quanto rotonda fosse l'ostia impreziosita dal ricamo dorato? Rimasto ultimo, il più giovane, il figlio del farmacista, è l'unico che ha il coraggio delle proprie azioni, a mezza voce, cercando di non farsi sentire dagli altri chiede. “ Diomira ci sarà questo pomeriggio al ballo? Loro non lo dicono, ma dei paramenti non sanno cosa farne, sono tutti qui per lei. Tutti sono accorsi oggi per vederla, ma nessuno sapeva  chi fosse  e come fare ad individuarla. Certamente, in queste vesti, è faticoso immaginare quanto le voci hanno sparso in un lampo circa la sua bellezza ed eleganza.  Le sarei grato se volesse concedermi questo pomeriggio l'onore di un ballo...”. Nel risollevarsi dalla finta attenzione verso il paramento, lo sguardo del giovane incrocia quello di Diomira che dopo un attimo fugace, non riesce più a sostenerlo, è costretta a distogliere il suo, arrossendo. “......mi chiamo Salvatore.” Diomira gli rivolge un altro sguardo veloce, ha paura di dimenticarsi il volto, non può rispondere. Nella sua testa mille domande : “E' questo il mio fotoromanzo? L'amore ti fa arrossire? E' il non riuscire a guardare l'altro negli occhi? E' questo l'amore? O è diverso, gli altri si guardano tanto negli occhi io non sono riuscita.”

I pensieri, assieme alle fantasie, sono cavalli impetuosi nella mente di Diomira e forse lei non ha le capacità e tantomeno la forza per domarli. L'attesa del pomeriggio è spasmodica, come del resto per tutte le persone che lavorano in casa. Ma prima di poter avere il pomeriggio libero bisogna riordinare la casa, e anche Diomira ha il suo bel daffare. Finalmente, con la discesa in paese della Signora con Vossìa, tutti sono liberati dal loro compito e vanno a farsi belli per correre in paese.

Diomira si prepara con il suo vestito e si accorge di un particolare non di poco conto. Non ha le scarpe come le signore, con il tacco, può solo contare su delle scarpe con la suola in corda e fatte di tela, lavate e quasi tornate di un colore bianco. Non ha neanche una borsetta, e si sente quasi in colpa per non avere un copricapo. Con l'unico pezzo di stoffa  avanzato del vestito fa un triangolo e se lo pone in testa allacciandolo dietro la nuca. Non  le importa del risultato, deve esserci a quella festa. Cerca di camminare sulle pietre, cercando di evitare i punti dove la rossa terra potrebbe sporcarle di rosso le scarpe, evitando pertanto di fare scorciatoie in mezzo ai prati. Per strada non trova nessuno, sono tutti già in paese a ballare e a far festa. Entrando in paesi gli occhi cominciano a posarsi su di lei, tutti increduli, chi dalla sua bellezza, chi dalla sua sfrontatezza. Il suo arrivo in piazza è chiaramente atteso da tutti, se lo stanno augurando i ragazzi di adesso e quelli di una volta. Entra in piazza in mezzo alla folla che si apre, e dentro di lei i pensieri di isolamento, di abbandono, si fanno ancora strada, non riesce a concepire che è gesto di ammirazione, di accompagnamento verso il suo altare. Vorrebbe tornare indietro, anzi lo sta per fare, quando si sente chiamare: “Diomira, temevo che non sareste potuta venire, che su alla villa vi avessero trattenuta. Siete incantevole. Nessun uomo potrà essere più felice di me se mi concederete un ballo”. Diomira non se lo fa ripetere e fa un cenno di assenso con il capo. Il tango , che tanto di moda va ora, parte.  Salvatore si concede una libertà. Le scioglie delicatamente il nodo del fazzoletto dietro la nuca, lasciando scoperti i suoi capelli castano chiaro che le sfiorano le candide spalle.  Salvatore tenta di specchiarsi in  quegli occhi verdi, che fuggono timorosi. Le consegna il fazzoletto appena sciolto dai capelli, e Diomira lo lascia cadere alle sue spalle senza darne alcuna importanza. Ballano leggeri sotto lo sguardo del paese, incuranti del giudizio a cui sono sottoposti. I balli si susseguono, è evidente che non si stancheranno mai, questa è la loro festa. 

La festa termina nel momento in cui Diomira viene colpita dallo sguardo severo della Signora e capisce che quello è il termine di ogni ballo. Si scosta da Salvatore che  per la prima volta passa dal lei al più confidenziale tu: “ Potrò rivederti?” “Dovrai chiederlo a Vossìa, oggi era un giorno speciale, e io sono la sua serva.”

Sale verso la villa, il passo è veloce, senza affanno, molto diverso da quello di un anno fa. Il cuore è leggero anche se avverte lo stomaco chiuso, non riesce a capire se il cuore le è diventato così grande da tappare lo stomaco o se è perché non ha mai mangiato in tutto il giorno, ma sente di non aver fame. In camera si butta sul letto, come ha visto su alcuni dei fotoromanzi, le braccia distese sopra il cuscino a toccare il muro, lo sguardo che trapassa il soffitto a contare le stelle.

Sono passati cinque giorni dalla festa e Salvatore non si è più visto. Diomira lavora, ma sempre con l'orecchio rivolto ai rumori che provengono dal cortile. Il cancello cigola. Lei sale sulla sedia sotto l'abbaino, e cerca di alzarsi in punta di piedi, così facendo può intravvedere una parte del cancello d'ingresso. Spera sempre di scorgere il volto di Salvatore venuto per incontrare Vossìa. Anche questa volta non è lui. Entra la Signora che la trova in piedi sulla sedia.

“Lavora, lavora. Che cosa credi che qui in questo paese ci sia marito per te? Salvatore non potrà mai venire qui a chiedere la tua mano. Qui funziona così. Lui è di famiglia ricca, tu sei una serva e sei destinata a rimanere tale. E inoltre Salvatore non è più a Santa Flavia, suo padre lo ha mandato a lavorare in una farmacia di un suo amico ad Agrigento. Sai quanto è lontana Agrigento?”

No, non lo sa, non ha neanche mai sentito nominare quella città. Ma Salvatore, mi scriverà, verrà a prendermi, mi porterà via con sé ad Agrigento o in capo al mondo se servirà.

Ogni giorno pensa a Salvatore, ma si accorge che la stretta allo stomaco si affievolisce ogni giorno di più e così anche il pensiero diviene meno intenso. Sente solo di non aver potuto completare il suo fotoromanzo personale con quel tanto sospirato bacio, che ancora non sa cosa sia.


Capitolo VII

Sono passati mesi e di Salvatore nessuna notizia. E' novembre, ed è anche il giorno del ventiduesimo compleanno di Diomira. Nessuna festa per una serva, ma Vossìa, benevolmente e non con la piena approvazione della Signora, le concede un pomeriggio libero, tanto lo sa che lo passerà in lettura e  magari, visto che la temperatura è ancora buona,  prendendo il sole  dietro casa, e vederla stesa al sole, con le  gambe e le  spalle nude, è uno spettacolo a cui neanche Vossìa riesce a resistere. Quando nell'atrio, Diomira sta uscendo, Vossìa dal salone la scorge e la chiama. Con lui un ragazzo giovane, dall'aria straniera, con un cappello legato ad una corda che gli penzola sulle spalle, stivaloni pieni di terra, ma Vossìa sembra proprio contento della sua presenza anche se sporcherà il tappeto.

“Vedi Diomira, questo è il mio mondo, è la mia passione. Guarda cosa mi ha appena portato lui che è un archeologo, questa statuina,  probabilmente di origine greca, potrebbe avere anche 2500 anni. Ti sei mai chiesta come mai mio padre abbia costruito questa casa qui? Poteva fare un bel palazzo signorile in centro a Santa Flavia. Invece ha voluto avere questa casa dove prima sorgeva la città di Solunto, 2500 anni fa, forse anche anche di più. Ha cominciato a trovare statue e anfore in questi campi e come vedi qui nelle teche ce ne sono un bel po’. Molte sono riuscito a venderle a gerarchi tedeschi, a nobili inglesi, a magnati americani. Ma ormai lo Stato vuole controllare questi scavi e dicono che tutto quello che c’è nel sottosuolo è dello Stato, anche se è nel mio terreno. Forse mi porteranno via il terreno, o me lo lasceranno, ma non sarò più padrone a casa mia. Anche questa statuina, che avrà un valore di qualche milione di lire, devo lasciarla allo Stato”.

In quella statua Diomira non vede altro che un sasso che ha la vaga forma di una testa. Una cosa senza senso il fatto che ci siano persone disposte a spendere così tanti soldi per possederla. Così pensando e sapendo di non aver studiato e di non poter comprendere certe cose, si incammina su per la collina, disattendendo le aspettative di chi già pregustava la visione di lei al sole dietro casa. Si stende vicino a delle colonne che non aveva mai notato, sono chiaramente di una casa che è crollata e tutto intorno altri muretti in sasso ricoperti da erbe e fichi d’india. Trova un prato e si stende al sole e sprofonda in alcune delle sue letture preferite, le novelle dei giornali dove ricava anche cartamodelli e idee per i vestiti di moda.  

Si assopisce nel tiepido pomeriggio e si lascia sfiorare dal vento. Ma da lì a poco, la terra vibra con dei piccoli sobbalzi, e dei rumori sordi. Sono onde prodotte da un piccone con il quale lo straniero sta scavando una buca poco più in là. Alterna colpi decisi a colpi più leggeri, e ogni tanto si china e prende in mano la terra per esaminarla. Diomira si desta, alza lo sguardo e lo vede a torso nudo vicino al muro di una delle case distrutte. Lo straniero sente di essere osservato, alza lo sguardo e la vede. Le fa un cenno con la mano e la saluta  rivolgendole delle parole con il suo stentato e buffo modo di parlare italiano. Diomira non capendo, scatta in piedi e velocemente corre verso di lui, che ormai, quando qualcuno le parla, è sempre essere pronta a ricevere ordini.  “Mi dica, ha bisogno di qualcosa?” “ No signorina, ho visto che lei è la stessa persona che stamattina era nella villa e volevo salutarla” Non può fare a meno di guardarlo, biondo, occhi azzurri, 26 , 27 anni, un accento come i militari americani che  si vedono in paese quando tentano di parlare italiano, ma molto più a modo. “E’ una parente del proprietario?” “ Parente io? No, sono solo una serva, faccio i ricami per la Signora”. Diomira si accorge di arrossire, anche perchè si  rende conto di essersi alzata senza il grembiule attorno, ritorna sui suoi passi a recuperarlo ed indossarlo. Quasi un defilèe anche se solo con un grembiule, ma l’eleganza e la bellezza non hanno bisogno di perle e oro. Convinto che stesse ritornando a casa, per farla tornare indietro le grida: “ Venga, le faccio vedere il mio lavoro.” Anche senza quell’invito Diomira sarebbe ritornata da lui, il suo viso era radioso come la sua bellezza. “Qui stiamo cercando l’antica città di Solunto, fondata dai Fenici, poi passarono i greci e infine i romani, per poi essere distrutta o abbandonata  poco dopo che era morto Gesù. Mi scusi, mi presento, Robert”. “Mi chiamo Diomira, nome da suora.” Il modo di parlare di Robert è dolce, ma fermo, il timbro è suadente e quell’accento lo rende esotico e misterioso. Diomira si convince di essere entrata dentro un fotoromanzo, e la sua mente è una macchina fotografica che scatta le foto di questa storia tutta sua. Poi vede una piccola tenda triangolare, con un treppiede fatto di bastoni con un paiolo sospeso. “ Ma voi dormite e mangiate qui? Ma se piove? Non avete paura?” Lui se la ride e quella risata lo rende ancora più interessante agli occhi di Diomira. Robert non può non notare il modo in cui Diomira lo guarda e contraccambia quelli sguardi di tenerezza. Con la scusa di farle vedere le colonne più da vicino, le prende la mano per aiutarla ed è inevitabile che la attiri a sé per un bacio. Diomira non sapeva cosa fosse un bacio e capisce subito che non sono solo due labbra che si toccano, capisce cosa significa dentro il corpo un bacio, quali dolcissime ma anche violente e inarrestabili emozioni causi. Da come il suo corpo reagisce lei capisce che il bacio è solo un inizio, tenero inizio di qualcosa che non conosce ma che vuole fortemente conoscere. Robert l’abbraccia ma teme andare oltre. L’accarezza e con dolcezza e nel mentre riprende il suo lavoro con il piccone, le chiede se tornerà a vedere i pezzi di pietra che strapperà alla terra. La osserva nel suo sensuale splendore fino a che si allontana per raccogliere i giornali e poi rientrare in villa.

La notte per Diomira è una notte lunghissima, insonne, occhi spalancati sul soffitto e come fosse uno schermo cinematografico, rivedeva tutte le scene del pomeriggio passato, avvertendone tutte le sensazioni nel corpo, che sta gridando dentro di lei tutte le pulsioni che le arrivano al cervello come una freccia che le fa pensare solo a Robert, al suo viso, al suo corpo da abbracciare.

Ad un certo punto della notte non resiste più. Scende dal letto. L’orizzonte verso il mare sta diventando una linea chiara, segno che l’alba sta per arrivare. Corre verso quella tenda, pur non sapendo cosa possa accadere, ma non può più attendere. Vuole le braccia e le labbra di Robert. Spalanca la tenda e Robert si sveglia di soprassalto, ma capisce che è Diomira nel vedere la sua sagoma, per lui ormai inconfondibile, in controluce. Una forza indomabile pervade i due. I baci sono appassionati e profondi, carezze sui capelli spettinandoli e increspandoli tra le dita. Poi le mani si muovono sui corpi rendendoli nudi. Per lei è un campo inesplorato ma lascia che Robert e la natura conducano questa danza, abbandonandosi alle carezze tra i capelli, sulla pelle, sulle cosce e infine accogliendo il corpo di Robert dentro di lei, attimi intensi, sudati, gridati, urlati per poi rilassarsi, ancora ansimando, in un abbraccio, lungo, senza fine. 

Durante il giorno Diomira lavora ai suoi ricami automaticamente, ma la sua mente è dentro quella tenda. Le notti scorrono nell’attesa dell’alba, per correre su per la collina e raggiungere il suo uomo, potersi abbandonare tra le sue braccia. Robert è sincero con lei, non mente e la mette al corrente che rimarrà quel che serve per i suoi studi e le sue ricerche, ma che dovrà tornare nella sua terra, dove l’attende una vita diversa, con persone diverse. A lei non interessa, quello che prova non è la stessa cosa che sentiva per Salvatore, è desiderio, è carnalità, è la parte mancante dei fotoromanzi. Per lei c’è solo questo presente, da prendere, da vivere, a lei non preoccupa il futuro, non ne ha paura perché non ne ha coscienza. 

E anche quella mattina, lei corre su alla tenda, ma trova solo un pezzo di prato vuoto, con l’impronta della tenda sull’erba. Robert se n’è andato lasciando un vuoto in Diomira, ma anche la sua indelebile impronta nel suo cuore. Lei si stende su quell’erba, quasi a ricercare il calore residuo del corpo di Robert. Guarda le stelle che si affievoliscono nella loro luce nell’arrivo dell’alba. Come quelle stelle, sente che qualcosa dentro smuore, ma non piange, sa cos’è l’abbandono, è una situazione per lei normale, che non la fa soffrire più di tanto. Ad ogni abbandono la sofferenza è sempre minore, mentre grande è il vuoto lasciato da quell’uomo, dai suoi abbracci, dalla sua bocca, dall’intensità della sua passione.

La presenza di questo vuoto viene colto e riempito fugacemente da altri uomini nell’anno successivo. A Diomira va bene così, lei non chiede una famiglia, non sa neanche cosa significhi questa parola, non fa parte della sua concezione di vita, sa solo che è al mondo, sola, ma non le fa differenza, e che deve vivere, preoccuparsi di esistere nel momento presente, in quanto nessuno le ha mai insegnato cos’è il futuro, il come progettare una vita.



Capitolo VIII

Fra qualche giorno a Porticello ci sarà la grande festa della Madonna del Lume. I riti e le processioni durano più di una settimana e la partecipazione della gente è totale, fedeli che entrano in una specie di trance religiosa davanti all’esposizione del quadro  miracoloso, processioni per terra e per mare, giochi pirotecnici, bancarelle, e bande musicali per giorni e giorni. Diomira non ha assistito nei due anni precedenti, a lei poco importa, anzi vuole proprio rimanerne lontana da quel mondo. Ha sentito i racconti degli altri al ritorno, di quante preghiere hanno rivolto all’immagine sacra della Madre di Dio ritrovata miracolosamente in mare. Lei rimane irremovibile nel suo pensiero, che di preghiere ne ha già recitate in numero sufficiente, da poter bastare per tutta una vita. Certo è che lei non ha potuto vedere l’uso dei paramenti che ha ricamato per quelle processioni. Nemmeno un po’ di naturale curiosità l’ha spinta a partecipare alle feste degli anni precedenti.  

I preparativi fervono anche in casa di Vossìa. Da quando la chiesa di Porticello è diventata parrocchia, la sua famiglia è diventata una delle maggiori benefattrici della festa del Lume. In cucina si preparano dolci alla cannella e vengono tostate calia e simenza. Diomira è tutta impegnata nell’ornamento del cortile, stendendo il lavoro appena terminato fatto di nastri colorati con appesi dei triangoli blu’, con al vertice inferiore un pendaglio dorato e con al centro una lettera ricamata in rosso.  Tutti assieme compongono  la  frase “W   LA    BEDDA    MATRI   DI   LU    LUMI”, che accoglierà i partecipanti al ricevimento che Vossìa darà, per le solite persone in vista del paese, la seconda domenica, ultima sera della festa, alla conclusione della processione a mare e al ritorno della sacra immagine sul suo altare. 

Diomira già pregusta delle giornate da trascorrere al sole a leggere, oppure anche a lavorare, ma in tranquillità senza doversi nascondere nella sua specialità più grande: lavorare e nello stesso tempo leggere. Ci sono lavori che lo permettono, e come i dattilografi riescono a digitare sui tasti senza guardare, anche lei riesce a leggere e ricamare contemporaneamente, senza perdere l’attenzione, né per l’uno, né per l’altro.

La prima domenica di ottobre arriva, ma le cose non vanno come lei pregustava. La Signora la pretende presente in sagrestia o in un luogo vicino dove possa intervenire per sistemare i danni che potessero essere causati dall’agitazione della folla e far ritornare tutto in ordine per il momento del rientro della processione in chiesa. 

La piazza pullula di gente incuriosita dalle bancarelle degli ambulanti che circondano la piazza. Vendono per lo più cianfrusaglie e immagini ricordo della Madonna oppure dolcetti, semi tostati, o cartocci di ceci. Non c’è alcun lavoro da fare, solo qualche ritocco, è tutto in ordine. Per il vero Diomira non capisce il motivo della sua presenza, ma come sempre, obbedisce agli ordini della Signora. 

Attraversa la piazza perché vede una cosa a lei cara e conosciuta. Le caldarroste! Le sembrano quasi fuori posto, qui è ancora caldo e le sembra impossibile che crescano boschi di castagno anche qui. Le ritornano alla mente le scorrerie per la fame nei boschi vicino a dove era sfollata durante la guerra con le altre compagne di collegio. Si rubava per fame nei boschi senza farsi vedere, le sembra tanto più bella ora la vita. 

Anche lei si è vestita per la festa. Si è confezionata un abito modesto, semplice, non appariscente, a motivo floreale scuro, come comandatole dalla Signora, da portare nelle occasioni speciali che avrebbero potuto esserci in villa in sostituzione del grembiule da lavoro, e quella era una delle occasioni. Ma nel mentre attraversa la piazza come può passare inosservata la sua presenza? Ormai è conosciuta, sia per la sua bravura che per la sua bellezza. Gli occhi degli uomini si posano su di lei. Alcuni, soprattutto se sono in gruppo con altri maschi, la salutano millantando a volte la sua conoscenza, ma facendo molta attenzione a non salutarla se accompagnati da mogli o fidanzate. Anche le donne la guardano, con sentimenti diversi, le più anziane forse anche con ammirazione per le sue capacità come ricamatrice. Le giovani donne accasate sicuramente con disprezzo per quanto si mormora in paese e con la preoccupazione di non poter competere con lei in bellezza e sensualità. Mentre le donne da marito, di tutte le età, la guardano tentando di carpire il segreto dalla sua innata eleganza, anche con un abito semplice addosso.

Uno scoppio di mortaretti la fa sobbalzare con un piccolo grido di spavento, fra le risate degli uomini che la stanno ad ammirare. Accortasi di essere osservata, quasi facendo finta di essere sorpresa di quegli sguardi, nel tentativo di darsi un contegno pudico, rientra in sagrestia, senza accorgersi che altri occhi la stanno osservando.

La sera l’immagine del golfo è emozionante. Le barche dondolano cullate dalle onde in attesa dello spettacolo di conclusione della giornata. A Diomira, che guarda dalla piazza del paese, le lanterne sembrano tante lucciole che danzano nel buio ed illuminano quel  grande prato orfano della presenza della luna. Poi i fuochi accendono il cielo, il mare, il porto e la collina. Salgono alti, si aprono in multicolori fiori di fuoco, i cui petali si staccano spegnendosi nel toccare il mare. Le cascate di fuoco partono da una barca all’altra, e alte fontane di scintille si innalzano da delle altre. Una festa dello stupore a cui non aveva mai assistito, né qui, né altrove. I due colpi finali, potenti, fanno rimbombare tutto il paese, lasciando un piccolo intervallo di silenzio, in cui si spengono anche i latrati dei cani, prima che ricominci il brusio della folla di ritorno verso La Piana.

Il lunedì è il vero giorno della festa, quello dedicato alla devozione verso la Madonna ed è in quei momenti che i devoti travolgono tutto e tutti pur di poter toccare l’immagine sacra. Diomira se ne sta in disparte, come raccomandato dalla Signora, nel suo romito in sagrestia. Assiste stando alla porta e per quel che può vedere in mezzo a quella calca, alla discesa del quadro dall’altare e poi, da lontano, intravvede le varie processioni con la banda che continua ad intonare inni mariani. I portatori che s’impegnano allo strenuo per tutto il giorno per trasportare la pesantissima portantina su cui è adagiato, all’interno di una teca in vetro, il quadro miracoloso con la Madonna del Lume. Inevitabili le conseguenze alle decorazioni e ad alcuni paramenti all’interno della chiesa. Diomira interviene con il suo lavoro riportando ordine  e riparando gli strappi di poco conto che i fedeli avevano causato nella foga. Tutto in tempo per la pazza corsa della vara, con l’ultimo fiato dei portatori su per la salita che dal porto arriva alla chiesa, e dopo un ulteriore spettacolo pirotecnico, il rientro della teca all’interno della chiesa. 

Si può tornare a casa, la festa è andata bene, pochi danni e tutti sistemati a dovere. Ora segue una settimana di preghiere  da parte dei fedeli sinceri, in attesa del gran finale di domenica prossima.

Domenica si preannuncia come una giornata più tranquilla, a detta della Signora, non dovrebbero esserci problemi. Gli unici problemi potrebbero proprio essere nel momento conclusivo, ma si potrà intervenire con calma anche nei giorni successivi, nessuno si accorgerebbe di nulla. Ma in ogni caso la presenza di Diomira è richiesta in quanto tutto può accadere, meglio essere pronti.

Al pomeriggio sono in programma due processioni, una per terra e una per mare. A Diomira farebbe piacere salire su una barca, non l’ha mai fatto, ma obbedisce, come sempre, al volere della Signora, rimanendo in sagrestia o nelle sue immediate vicinanze. In lontananza si odono colpi di moschetteria, la banda che suona e tante grida di gioia. Verso la fine della processione a mare, si alza un po’ di vento e delle nuvole minacciose percorrono il cielo preannunciando la pioggia. 

La vara sta risalendo verso la chiesa con le soste di rito per le preghiere e per gli inchini. La pioggia comincia a battere forte sulla strada e sul capo dei fedeli. Alcuni corrono verso la chiesa, preparandosi al rito finale e per ripararsi, altri imperterriti continuano la processione, fino alla fine, senza darsi pena per la pioggia.

Diomira vedendo la pioggia si ritira all’interno della sagrestia, ma qui, chi fino allora l’ha osservata con occhi pieni di quel desiderio sempre strozzato dalla sua condizione di frate, la prende per i polsi e la getta dietro la tenda dello sgabuzzino della sagrestia. Le poggia le mani in tutte le parti del corpo, con furia, ansimando come un bufalo. Diomira tenta di ribellarsi, ma la forza che imprime l’uomo è tale da lasciarle solo lo spazio a qualche smorzato grido e a qualche implorazione di desistere dal farle del male. Il frate imperterrito continua a stringere e spera nel fatto che Diomira desista e si conceda, conscia del fatto che con la confusione che regna fuori da quel luogo, nessuno potrà mai udirla. 

Ma in quel mentre la Signora entra in sagrestia per ripararsi dalla pioggia e al vedere il movimento della tenda, con fare deciso la fa scorrere rimanendo sconvolta alla vista dei due. Così comincia a gridare in dialetto siciliano improperi a più non posso. Diomira si sente salva, ma la Signora, nel mentre il frate con grande intuito preferisce darsela a gambe, comincia a picchiarla, a strattonarle i capelli, a darle della blasfema, dell’eretica, della strega. Diomira riesce a divincolarsi e con il vestito in parte scucito e strappato per le due violenze subite, entra in chiesa di corsa, ma si scontra con la folla che entra con le mani allungate verso l’alto. Tutti vogliono toccare il quadro nel mentre ritorna verso l’altare. Viene travolta, spinta in mezzo a tutti quei corpi bagnati di pioggia, sudati per la fatica, con i volti rigati di lacrime per la commozione. Una follia isterica pervade l’interno della chiesa, trasformata in un solo corpo bagnato in cui lei avverte di essere una cellula estranea. E gridano, implorano, vogliono toccare, toccare, toccare. Diomira viene buttata dalla spinta della folla proprio sotto il quadro, quasi inebetita sente quelle mani che la spostano, che la urtano, che le danno colpi alla testa  per poter arrivare al quadro. Quando esce da sotto il quadro, vede l’immagine della Madonna salire verso l’altare passando ancora sopra le teste di una scala umana. Guarda quell’immagine, e le rivolge qualche parola. “Allungano anche le mani su di te, guarda molte sono le stesse che si sono allungate su di me. Forse sarà un desiderio diverso, forse il tuo è un desiderio di vita eterna, di salvezza, quello verso di me è terreno, che esaurisce la sua fiamma in pochi secondi, fugace, di un momento, ma poi ritorna ad ardere impetuoso all’interno della pancia degli uomini e come un acido corrode le menti, anche di quelli votati alla santità. Se fosse una gara, chi di noi due vincerebbe se non ci fosse la paura di mezzo?” 

Diomira esce dalla chiesa, corre verso la villa, non piange,  questa situazione non è più dura o peggiore di altre che ha vissuto, anzi qui è lei che decide di abbandonare, di fuggire. Riunisce in un sacco le sue poche cose, i suoi vestiti, l’ultimo fotoromanzo, i pochi soldi. Non può attendere il processo a cui inevitabilmente verrà sottoposta, il verdetto lo conosce già, la pena l’ha già scontata in anticipo. Corre verso la stazione, a prendere a ritroso quel treno, che poco più di due anni prima, l’aveva portata in questo paese. Ritorna da dove è arrivata, ma senza sapere che vita troverà ad attenderla. 


ATTO SECONDO

Capitolo IX

Diomira scende dal treno dopo quasi due giorni di viaggio. Conosce poco la sua città e si avvia verso casa attraversando il grande parco di fronte la stazione. Gioca  rincorrendo le foglie secche dei platani spostate dal vento e a balzi cerca di prenderle sotto i piedi per sentirle scricchiolare  e frantumarsi sotto i suoi piedi. Le folate di vento le spostano di qua e di là, obbligandola ad allungare i passi e compiere dei salti. L’autunno è arrivato e sicuramente i vestiti che indossa sono poco adeguati alla diversa temperatura di dove proviene. Si stringe su se stessa, cercando di recuperare tutto il calore possibile dal suo corpo e affretta il passo. 

Entra nella stradella dove abita la madre. Un grosso ratto le sbarra la strada. Lei batte i piedi per terra per farlo fuggire, ma quello si rizza sulle zampe posteriori e girandosi verso di lei con fare minaccioso emette un verso che ben poco ha dello squittio di un topo. Non può far altro che rimanere ferma, attendere che il ratto finisca di annusare il selciato e attraverso un buco di una porta in sfacelo, si rintani all’interno di un edificio in stato di abbandono.

Diomira sale le scale, incrociando bambini che scendono e altri che salgono. Bussa alla porta. Una signora le apre ma capisce subito, dal bambino che ha in braccio e da quelli attaccati alle gonne, che non può trattarsi di sua sorella maggiore, né tantomeno di sua madre. Timidamente chiede di sua madre e la donna le risponde che era arrivata lì circa un’anno fa, ma non conosce nulla di chi abitasse in quell’appartamento prima di loro. Ma anche in mezzo al baccano fatto dai bambini, i muri hanno orecchie, e altre vicine si affacciano sul ballatoio delle scale, per curiosare quasi sempre, ma in verità anche per dare una mano. La notizia arriva, la mamma è morta un anno fa e di conseguenza la figlia è andata a vivere da un’altra parte, forse da una sorella, ma nessuno sa nulla di preciso. Diomira cambia espressione in volto, si tiene alla balaustra, sente un enorme peso che le sue gambe  fanno fatica a reggere. Tutte pensano sia per la morte della madre, ma a lei non importa proprio nulla di quella donna. Nonostante sia stata più volte abbandonata, rifiutata , per la prima volta si sente veramente sola. C’è sempre stato qualcuno alle sue spalle, anche nei momenti più terribili, ora non c’è nessuno che le possa dire cosa deve fare, nessuno che pensi per la  sua quotidianità. Alla solitudine affettiva è abituata, ha saputo crearsi le sue difese. Ma adesso si sente interamente sola, non ha né una persona, né un luogo a cui fare riferimento. 

Le vicine avvertono lo sconforto in Diomira e le chiedono se sa dove andare. Diomira confessa di essere nella confusione più completa e di non sapere cosa fare. Tutte si guardano, nei momenti di bisogno i più poveri rinunciano a poco, pertanto non hanno problemi a condividerlo, ma a parte un boccone per la sera, la difficoltà resta un letto, un riparo per la notte. In quel mentre sale le scale Norina, che avverte il chiacchiericcio: “ Non sai dove andare? Se vuoi per qualche giorno c’è il letto di mia madre, la rete cigola, ma sempre meglio che per strada”. 

Diomira non ha ovviamente mai conosciuto Norina, ma lei conosceva bene la sua famiglia. Norina, trentaquattro anni ormai, è rimasta una bambina smaliziata, mai cresciuta nonostante sia sempre vissuta in un mondo di grandi. La faccia smunta e quegli occhi neri inespressivi non sono cambiati da quando era piccola. Si mantiene con qualche lavoro al servizio di qualche signora della città, faticando a mantenere il posto per le bevute serali che la rendono rintronata alla mattina. Le vicine accolgono con un silenzio la proposta di Norina, in fondo è sempre stata un’emarginata anche in mezzo agli ultimi, ma non possono offrire altre alternative a Diomira. Forse anche per non volersi assumere delle responsabilità, lasciano che accetti la proposta, che in fondo è anche l’unica soluzione, l’unico letto libero su quelle scale. Comunque, sapendo che sulla tavola di Norina non abbondano le cose da mangiare come quelle da bere, alla sera arriva una fondina di minestrone caldo che risolve il problema della cena a tutte e due. Con la scusa che il minestrone è troppo caldo, Norina trangugia tre bicchieri di vino per raffreddarsi la gola. Sono le 7 e mezza e sta recuperando quello che non ha potuto bere durante il giorno al lavoro. “Non sono mai stata bella come te Diomira, e guarda qua, adesso ho anche la pancia nonostante mangi poco. Ah, non pensare che sia incinta, no, no!”. Diomira la guarda, ma non capisce perché, se mangia poco, Norina ingrassi, ma forse neanche Norina l’ha ancora capito. “Io esco, vado giocare a carte, vuoi venire anche tu?” “No, grazie rimango a leggere.” “Anch’io sapevo leggere qualcosa, ho fatto la seconda elementare e non sono neanche riuscita a superare gli esami, e mia madre mi ha mandato subito a lavorare. Adesso a fatica scrivo il mio nome e riesco a leggere qualche insegna dei negozi. Forse anche perché mi ricordo cos’è quel negozio, ma leggere un giornale proprio no, non ci riesco.”

Norina infila una giacca di lana e sparisce nel buio oltre il vetro smerigliato della porta. Si ferma sul ciglio del primo gradino della scala prima di scendere, bisogna abituarsi alla fioca luce della lampadina che pende dalla balaustra vicino al gabinetto e che illumina tutte le scale. Diomira affonda nel suo libro di storie amorose e riesce ad allontanare la preoccupazione che l’aveva attanagliata qualche ora prima. Tutto sommato, come sempre, lei si accontenta di quello che ha, se qualcuno o qualcosa riesce a risolvere il problema, la disperazione del momento, per lei è tutto. Non proietta mai la sua condizione nel futuro, né come progetto, né come disperazione, inconsciamente per lei conta solo il presente. Si addormenta su quel letto che cigola quasi ad ogni respiro. Viene svegliata da un trambusto sulle scale. Norina e qualcun altro che tentano di aprire la porta. Nell’entrare Norina si ricorda di avere un’ospite e a grandi gesti e con il dito indice al naso intima di fare piano all’accompagnatore. Il suo “Shhhh!!” è talmente forte che riesce a svegliare anche qualche vicino che accende la luce nel suo appartamento. Diomira finge di dormire. Norina tira una tenda che divide i due letti, la stessa che sua madre tirava quando lei era piccola. Diomira è vigile e cerca di carpire cosa significhi ogni rumore proveniente al di là della tenda. Delle risatine di Norina condite da dolci incitamenti, degli sbuffi conditi da qualche bestemmia da parte dell’accompagnatore, nessun rumore dal letto. Meno di trenta secondi e il cigolio del letto di Diomira viene coperto dal russare di tutti e due dall’altra parte della stanza. 

Uno sbattere della porta risveglia Diomira, è ancora buio ma evidentemente l’accompagnatore di Norina si è svegliato ed è ritornato alla sua vita di tutti i giorni. La stanza è impregnata di acri odori, un misto di sudore e alcol che costringono Diomira a spalancare la finestra fra le rimostranze di Norina che si tuffa con la testa sotto le coperte. 

Oltre la porta la vita sulle scale ricomincia. Uomini che scendono ancora col buio per recarsi al lavoro. Duri lavori in fabbrica, in fonderia o in fornace, poi i ragazzi che imparano un mestiere, per qualche lira a fine settimana, nelle officine di biciclette del quartiere, le ragazze giovani che lavorano come “lustraresse” nelle fabbriche dell’oro. Poi è la volta dei bambini che partono per scuola assieme alle donne che lavorano a servizio nelle varie case del centro. Una di queste, prima di partire, dal ballatoio chiama a voce alta Diomira che esce ad affacciarsi alla ringhiera. “ I miei padroni cercano una rammendatrice, sarta e altri lavori di taglio e cucito, non per tutto il giorno ma sempre meglio di niente. Vuoi che ne parli?” “ Grazie sì, basta non siano lavori di casa, sono proprio negata, se si tratta di ricamare, cucire, rammendare, va tutto benissimo!”

Anche Norina, facendo ancora fatica a reggersi in piedi, parte per il lavoro. Diomira la segue con lo sguardo finché scende le scale. La vede appoggiarsi con tutto il corpo sulla ringhiera per aiutarsi nella discesa, facendo così vibrare la ringhiera. A vederla, sembra più una vecchia con le articolazioni e le anche ormai malandate, che una donna di 33 anni.

Diomira approfitta per uscire da quel buco maleodorante. Va in centro a vedere com’è la città. Fuori dalla stradella passa davanti all’officina di biciclette racchiuso dentro un androne  tutto annerito di un vecchio palazzo. Sull’uscio, che sta riparando una camera d’aria, uno dei ragazzini che aveva intravisto ieri sera sulle scale, che scatta in piedi al vederla e sorride spalancando a più non posso i suoi occhi azzurri, e guardandosi intorno, sperando che i suoi compagni di lavoro lo vedano, con voce strozzata esclama :“ Ciao Diomira!”

Capitolo X

Diomira percorre la salita della Prefettura e svolta a sinistra verso piazza delle Erbe, il mercato all’aperto della città. Si avvicina alla zona dei banchetti, ma la sua attenzione viene attratta dal negozio di alimentari, non tanto per la sua esposizione della merce , ma per l’odore proveniente dall’interno. Odore di stoccafisso frammisto a quello dei salumi, e dei formaggi, tutte delizie non alla sua portata e chissà se mai potrà permettersele. Passa davanti al ristorante e albergo Da Pasquale, con parcheggiate molte auto dei clienti, poi la polleria, il negozio di giocattoli, dove potersi fermare un po’ a sognare una bambola tutta sua che non ha mai avuto. La vorrebbe mettere al centro del letto, adagiata sul copriletto con le frange dorate, il viso che sembra di porcellana e con un vestito ampio, rosso. A destra la teoria dei banchi del mercato. Ce ne sono che offrono frutta e verdura, altri formaggi e pane. Chi espone una fila di sacchi da dove escono fagioli secchi bianchi, rossi e di svariate altre qualità, piselli secchi e qualche altro legume. Vicino, anche un banco che vende  cacciagione, con sul tavolo una massa informe di piume arruffate mosse dall’aria e due fagiane appese, una per lato, della copertura del banco. C’è chi vende zucchero, caffè in grani, e il più economico orzo tostato. Il banco dei fiori e delle sementi è quello che più risalta con tutti i suoi colori. Sotto le logge della Basilica c’è chi vende uccellini e altri animali vivi. Come Diomira, i canarini non si fanno troppe domande e vivono la loro giornata cantando. Come lei, sono nati così, non sanno che c’è di più fuori da quella gabbia, per loro la vita è normale, cosa possono chiedere di più? Basta che abbiano qualcuno che si occupi di loro, e questo in fondo è la felicità. 

Al mercato tutti sono indaffarati e pensano solo ai loro acquisti, bisogna stare attenti a quello che vendono, ad essere accorti sulla qualità e sul prezzo e soprattutto trattare, non c’è spazio per le distrazioni. Ben diversa la situazione quando, salendo le scale della Basilica, Diomira entra in Piazza dei Signori. Qui oltre ai mediatori e sensali che trattano partite di fieno e bestiame, passeggiano signore e signori ben vestiti.  Questi cercano di dimostrare di non aver problemi economici frequentando i negozi del centro, dove si trovano primizie e specialità che al mercato non ci sono.   Gli incontri si fanno nei caffè e nelle pasticcerie, dove si possono incontrare le amiche per spettegolare sulle assenti, o per gli uomini, leggere il giornale potendo, con occhio disinvolto, adocchiare le ragazze che passano. Diomira non sta passando inosservata, anche se i suoi vestiti sono decorosi ma non certo all’ultimo grido, la sua bellezza accompagnata alla semplicità si fa notare. Ad un tratto si sente chiamare: “Diomira, Diomira”. Lei si volta di scatto quasi incredula che qualcuno chiami lei, chi può conoscerla in questa città? “Ciao, sono Livietta. Abito sulle stesse scale dove abitava la tua famiglia e ieri sera ti ho visto. Forse tu non ci hai fatto caso, ero dietro mia madre quando ti ha portato su il minestrone. Volevo chiederti se stasera venivi da noi a mangiare, il solito minestrone, niente di chè, me l’ha detto mia mamma! Ai miei farebbe tanto piacere, sanno quanto devi aver sofferto! E poi non sai neanche cosa potrai mangiare stasera con Norina, di quella non è che ti puoi fidare.”  Diomira accetta l’invito, sarebbe da sciocchi non farlo, nella dispensa di Norina, a parte il vino non c’è altro. Ritorna verso la piazza delle Erbe e qui, con gli ultimi spiccioli,  compra un pezzo di pane. Vorrebbe tenerlo per mangiarlo a mezzogiorno, ma ficcando la mano dentro il sacchetto di carta, ne stacca un pezzettino. E’ ancora tiepido, croccante. Un pezzettino alla volta, arriva alla stradella con il solo sacchetto vuoto. “Bene per oggi abbiamo mangiato”, non può far altro che pensare così nel mentre sale le scale. Quando passa al secondo piano, la porta del primo appartamento si apre ed esce Norma , la signora del piatto di minestrone. “ Hai incontrato Livietta? Ti aspetto stasera, un piatto di minestra sai, non ti aspettare di più.” “E’ già tanto e siete così gentili”. 

Diomira si tuffa nella lettura, ormai sono sempre gli stessi fotoromanzi e il libro del viaggio, non importa, quello per lei è un mondo da vivere, il suo rifugio e cerca di immedesimarsi in quelle frasi d’amore e in quei baci. Anche la fame si fa sentire meno, ma un po’ alla volta la luce diminuisce, si sta facendo sera e Norina non è ancora tornata. 

Diomira scende verso l’appartamento di Livietta che le apre. “ Penso di essere in anticipo” e Norma le risponde: “Vieni, vieni, stavo giusto mandando Livietta a chiamare suo padre, potresti accompagnarla” . Livietta ha 4 anni in meno di Diomira, ma pur non avendo il suo fisico prorompente, il suo volto e i suoi occhi hanno  pochi rivali in città. 

Giù in strada Livietta comincia a correre: “Dobbiamo far presto, dobbiamo fare il giro di una decina di bar per vedere dove è finito e poi tentare di portarlo a casa”.

Si inizia dal più vicino al Barcaro, all'intersezione tra Stradella Piancoli e Contrà Barche, scarse le probabilità di trovarlo lì, non era luogo frequentato dai suoi amici e infatti, in un tavolino con un uomo, c’è Norina con davanti un litro di vino ormai quasi terminato. Diomira capisce già cosa l’aspetta stanotte. Ma Livietta si rimette a correre, deve starle dietro. La tappa, o meglio capitello successivo, il bar all’Abbondanza, due gradini in giù da via Cabianca,. Al bancone niente, un’occhiata anche dove c’è il biliardo e nell'altra sala con tavolini per bere e giocare a carte. Niente, via verso il 35, contrà San Faustino, senza entrare, posto brutto. Si butta l’occhio attraverso il vetro e via! Dalla Supy, all’angolo opposto della stradella era da saltare, troppo malfamato anche per la bocca buona del padre di Livietta. Poi su fino in piazza Erbe, al Grottino, al Bersagliere, al Ciampo e il Pigafetta, anche se erano più bar da sabato e domenica, roba da festa! Finalmente l’ultima tappa, quasi sempre risolutiva, il familiare e accogliente Cantinon. Una serie di finestroni enormi con le grate a rombo, che danno su Contrà San Paolo, due porte di ingresso. Un bancone enorme scuro sulla parete di destra, marito e moglie che ti servono sia come bar che come ristorante. L’arrivo di Livietta è sempre festa, e lei va subito dall'attrazione di quel luogo, il  cane Pucci, goloso di biscotti, che nel locale, dopo le tassete, sono la cosa più venduta. E’ un cagnolino bianco a pelo lungo, chissà di quale razza. Livietta mostra a Pucci il biscotto e gli dice : “ Pucci dimmi una preghierina”. Lui non se lo fa ripetere due volte, sale sopra la sedia del bar, di quelle con seduta  e schienale rotondi con i braccioli, si mette sulle due zampe posteriori, congiunge quelle anteriori e le manda su e giù tenendole giunte, sempre con la linguetta rossa di fuori. “Bravo Pucci, bella preghiera!!” E lui subito reclama la sua ricompensa abbaiando!  Ermes, il padre di Livietta, sorseggiando l’ultima “tasseta”, si diverte a vedere  la sua terza e più piccola figlia, per la quale stravede, far giocare Pucci: “Immagino ti abbia mandato tua madre a prendermi. Arrivo, arrivo”. Paga ed esce assieme alle due ragazze. La camminata non è molto sciolta, evidentemente non è stata l’unica tasseta. Lungo contrà San Paolo, qualcuno fischietta il motivo di Giovinezza. “ Fiol de na roia!”. “E’ il merlo indiano in uno dei poggioli sopra il Cantinon. Non so se quello che ha detto mio padre sia per il merlo o per il proprietario. Il merlo conosce solo due canzoni, Giovinezza  e Faccetta nera”. “ Mi sa che tuo padre tirerebbe il collo a quel merlo”. Ridendo,  riprendono di corsa la strada verso casa.

Capitolo XI

La stanza, che è cucina, sala da pranzo, è illuminata da una lampada in vetro con una lampadina da pochi watt. Di giorno prende luce dalla finestra, che in alto guarda verso il gabinetto comune, con il vetro satinato e dal vetro smerigliato della porta d’ingresso. Un lavello in pietra rosa, con il rubinetto che spunta dal muro con infilata una canna in plastica, che direziona il getto sulla pietra, posizionata in modo da non schizzare acqua ogni dove. In fianco al lavello un mobile a giorno con una tendina a fiori davanti e sopra un fornello a gas con due fuochi alimentati da una bombola a gas. Sulla parete di fronte alla porta è appeso un mobiletto in metallo smaltato  bianco, trovato chissà come, che viene spacciato ai vicini come cucina americana. Norma esile e riservata, tutta l’opposto del marito esuberante a non finire soprattutto con una tasseta in corpo, ma al contrario di lui, lei buona come il pane, mentre lui, come si dice da quelle parti, non è farina da fare ostie. La cena è stata veloce e come al solito Ermes se ne va subito a letto. Finché Livietta lava i piatti, Norma racconta delle vicissitudini della famiglia di Diomira e diventa così l’unico modo per lei di conoscere un po’ della sua famiglia di origine, anche se tutto sommato è un argomento a lei quasi del tutto indifferente. Anche l’odio, che sarebbe del tutto giustificato per quell’abbandono, nella semplicità di lei non esiste, come non esiste neanche il perdono, perché non sente il torto subito e come si sa, il perdono serve a chi si sente offeso e lei non lo era. Quando Diomira racconta di essere brava solo con ago e filo, Livietta subito interviene mentre sta asciugando le ultime posate con il canovaccio. “Ma perché non vieni con me domani dove lavoro io? Io lavoro in sartoria e Toni sta cercando una lavorante”. A Diomira si illuminarono gli occhi: “Trovare un lavoro e magari anche come sarta, sarebbe la cosa che risolverebbe già una parte dei miei problemi ed è anche il lavoro che meglio so fare. Speriamo di essere in forma domani mattina. Tutto dipende da quanto su di giri arriverà Norina stanotte. Se saranno su di giri parecchio sarebbe meglio , così si addormentano subito e non disturbano, a parte russare!”  Con una risata, Norma apre la porta e saluta Diomira, che contraccambia voltandosi una volta giunta sull’uscio dell’appartamento di Norina: “Grazie di tutto a domani. Livietta, se non mi sveglio butta giù la porta.”

Alle 7.30 Diomira è già sul ballatoio delle scale che aspetta Livietta. “Allora non occorre che butti giù la porta! Hanno russato tanto? Non ti hanno fatto dormire?” “Diciamo che hanno fatto un po’ rumore, ma poi questo mi sa che aveva famiglia ed è andato via presto! Una botta e via!”. Diomira vede che Livietta la guarda un po’ strana e pensa: “Vuoi vedere che non ha capito cosa intendevo dire? Ma ce l’avrà il fidanzato? In fondo ha diciannove anni e non ha vissuto con le suore.”

Si Incamminano verso ponte degli Angeli. E poi giù per IV Novembre. Il laboratorio di Toni è vicino al Cimitero Maggiore. Lui è un ometto piccolo, sulla cinquantina, baffetti mori spruzzati di bianco, capelli impomatati dove ormai il bianco risalta di più del nero. Cammina scianco e deve aiutarsi con il bastone, sia per camminare che per sostenersi, nel laboratorio c’è chi dice sia stata una bomba durante la Grande Guerra, chi invece che è stato colpito da una malattia da piccolo, ma nessuno ne parla mai all’interno della sartoria. Liviettta entra e presenta velocemente e timorosamente Diomira al signor Toni e si precipita al suo posto di  lavoro. Diomira racconta a Toni, che non ha tempo da perdere, un po’ delle sue capacità e gli mostra anche il vestito fatto da lei. “ Qui si fanno solo vestiti da uomo. Due settimane di prova, la paga è a cottimo, un tanto a pezzo, e per essere messa in regola si vedrà!Intanto, visto la tua abilità come ricamatrice, farai le asole dei vestiti e dei pantaloni. Lì guarda, ci sono tre giacche e sei pantaloni con un bel po’ di asole da fare.”. Toni pensava di averla spaventata, ma Diomira di asole ne ha fatte talmente tante sulle tonache di preti e suore che quelle da fare sul tavolo di Toni le sembrano quasi un divertimento.

Anche se un po’ fuori mano, la sartoria è frequentata da molti signori del centro. Essere praticamente a fianco del cimitero, lo fa diventare un luogo di grande passaggio, per non parlare dei prezzi, che sono più convenienti rispetto ad altre sartorie più rinomate del centro. Altre due ragazze lavorano assieme a Livietta. Lei è addetta  alla cucitura dei pantaloni da uomo. Il taglio della stoffa e l’imbastitura del vestito  sono fatti personalmente da Toni, che non dà queste responsabilità a nessuno. Ovviamente anche le misure le prende lui personalmente, con non poche difficoltà per le sua condizione fisica. Adducendo la scusa che deve pur preservare le ragazze da certi imbarazzi e anche per mettere a suo agio il cliente, le misure le prende dietro una tenda a mo’ di camerino e le stoffe le taglia quando tutte se ne sono andate.

Anche la sartoria di Toni è un luogo di passaggio per molte dipendenti e lui non vuole che nessuno  carpisca i segreti del suo mestiere. Le contromisure delle più brave e smaliziate sono infinite, e un uomo non può competere con loro in fantasia e astuzia. S’inventano sempre un modo per arrivare al loro obiettivo, entrando dietro la tenda nel momento giusto: “ O mi scusi, non pensavo” Oppure aspettando che il cliente insista per offrire una tasseta al Boccaletto, per misurare cartamodelli e farne una copia veloce. Lo scopo per loro, quasi sempre, è  quello di lavorare in casa una volta maritate, perché dopo il matrimonio, nessuno le vuole più al lavoro.

Livietta impara, ma non ha di queste mire, quello che ha imparato le è sufficiente per fare i pantaloni a suo papà con la vecchia Singer della mamma,  è già un bel risparmio e tutto sommato anche una bella soddisfazione. 

Quello che Livietta non ha detto a Diomira è che, all’uscita dal lavoro, c’è Vito in bicicletta che l’aspetta. E’ l’unico modo per sfuggire al controllo del padre, che le  misura il tempo del ritorno a casa, ma se ritorna in bicicletta, c’è sempre il tempo di passare un quarto d’ora in qualche via in disparte assieme a Vito. Livietta, dopo aver presentato Vito in modo frettoloso a Diomira, salta sul palo della bicicletta e dice a Diomira di aspettarla all’angolo del Museo in modo da ritornare a casa assieme e non far insospettire il padre. Diomira cammina lentamente, sorridendo al pensiero che aveva immaginato Livietta come ingenua e sprovveduta. 

Ermes le aspetta, sulla soglia dell’Abbondanza, all’angolo di via Barche con un calice di bianco in mano. Quando le due arrivano a metà della piazza, l’inconfondibile fischio che fa trasalire Livietta. Suo padre le incute terrore pur non avendo mai dovuto assaggiare le sue mani. “Ci avete impiegato un bel po’ dal cimitero, non è che avete incontrato il “faganello” da Anconetta?” Le due si guardano come quasi ad essere state scoperte, ma Livietta con fare disinvolto, con le braccia appoggiate sui fianchi, cercando conferma del potere che esercita sul padre lo apostrofa: “Lei non è abituata camminare forte come me, già non dorme la notte con la confusione di quell’altra, vuoi che la faccia morire?” “Corri a casa da tua madre e dille che tra un quarto d’ora sono a casa, che mi faccia trovare pronto”. Le due si mettono a correre, ma girato l’angolo si guardano ed esplodono in una risata gigantesca!


Capitolo XII

E’ stata una settimana intensa, con il ritorno burrascoso dalla Sicilia e il relativo abbandono della sicurezza che le dava quella casa, per trovarsi completamente sola nella sua città, che le è quasi sconosciuta. Sta tentando di superare le difficoltà del momento appoggiandosi a persone umili, che in un modo o nell’altro e con i mezzi a disposizione, cercano di aiutarla. 

E’ sabato e in sartoria le ragazze aspettano tutte che arrivino le cinque. Toni le lascia andare a casa un’ora prima, sa che devono prepararsi per andare a ballare. Vito non sta aspettando Livietta all’uscita, anche lui è a casa, ad Anconetta, a mettersi il vestito buono per poi ritornare in centro città.  Stasera anche Livietta potrà andare a ballare. Al  Caffè Garibaldi suonerà suo padre, pertanto ha il permesso di ballare anche lei, sotto gli occhi vigili di Norma e soprattutto di Ermes. 

Serata danzante con l’orchestra “Le Note”. Così recita il manifesto affisso fuori dal Caffè. L’orchestra è composta da alcuni giovani con i requisiti per essere effettivamente dei musicisti e da altri personaggi navigati che suonano ad orecchio. Tra questi anche Ermes, che di musica non conosce nulla, ma in Africa ha imparato a suonare il contrabbasso ad orecchio e tiene bene il ritmo e tanto basta. E’ soprannominato “la nota segreta”, con evidente presa in giro per quelle mai imbroccate. Solo quelli dell’orchestra osano chiamarlo così, ad altri risponde con epiteti non riferibili. Poi sicuramente è anche l’uomo più appariscente, nonostante abbia superato la cinquantina e questo, unito alle sue doti di dongiovanni, diventa un punto a favore dell’orchestra. 

Quando arrivano Livietta, Diomira e Norma il salone superiore del Garibaldi è già pieno di gente che balla. In un angolo Vito sta aspettando Livietta. Lui le va incontro e sotto lo sguardo bonario di Norma la invita a ballare. Finché ballano un valzer,  Diomira li osserva compiaciuta volteggiare leggeri. Anche lei è  desiderosa di ballare, ma nella penuria di uomini coraggiosi nel farsi avanti, Norma chiede a Diomira di ballare con lei. Non se lo fa chiedere due volte. Norma balla benissimo e la fa sembrare una farfalla che vola, però facendo ben attenzione di passare durante il giro di danza vicino ai giovanotti più  belli, per mettere in mostra le doti di Diomira. Alla fine del valzer Diomira sorride soddisfatta, quasi dimentica delle peripezie della settimana trascorsa. Ora però, dopo l’esibizione con Norma, il primo giovanotto si fa avanti per chiedere a Diomira di ballare. Ogni ballo un cavaliere diverso.  Gli altri fanno la fila e si accordano tra loro per chi deve essere il prossimo. Ogni tanto, girando intorno alla stanza, passa vicino a Livietta e Vito e può notare gli occhi di lei trasognati tra le braccia di lui, le sembra quasi di essere dentro al loro fotoromanzo, immagina le frasi che possono sussurrarsi, ma non vede mai che si parlino, evidentemente il contatto dei corpi vale molto più di tante parole.

“Diomira! Ma sei proprio tu. Ti ricordi di me? Sono Carla, ero in collegio con te”. Diomira si volge, e riconosce in quella cameriera la compagna di stanza nell’orfanotrofio, anche se più giovane di due anni di lei. Le due si abbracciano dopo più di due anni. Carla non può fermarsi, deve lavorare, ma dà appuntamento a Diomira, davanti al Caffè per le 10 dell’indomani. E’ la sua giornata libera, e così potranno raccontarsi con calma le cose successe in questo lungo periodo. 

Un  cenno di Ermes fa capire a Norma che la musica sta finendo e lei richiama Livietta: è ora di tornare a casa. Quasi tre ore sono volate, per Livietta tra le braccia di Vito e per Diomira, che sulle ali dell’entusiasmo, si è lasciata trasportare nel vortice della danza, sognando balli principeschi, con tanto di carnet delle dame per annotare i balli promessi. Si è sentita una principessa di uno dei romanzi letti, che poteva dire di sì o di no nel concedere un ballo ai cavalieri, e come loro, si sente corteggiata, ammirata e tutto questo la fa star bene.

Norma e Diomira davanti, Livietta, sottobraccio a Vito, dietro. Lui cerca di stare il più ritto possibile, deve anche tenere il manubrio della sua vecchia Berga color panna. Il tragitto è breve, ma il passo dei due dietro è lento e le altre devono ogni tanto fermarsi per aspettarli. Norma, sul portone di casa, concede un minuto ai due ragazzi e giunta al primo piano, grida ma sottovoce: “Livietta basta!”, Livietta entra di corsa nell’androne, ostentando un po’ di muso nei confronti della madre, ma sa che quello è il massimo che può fare e con Ermes, ormai in arrivo, non si può scherzare.

E’ domenica e le campane suonano presto annunciando le Sante Messe nelle tante chiese della città. Alla mattina comincia ad esser freddo e Diomira non ha un cappotto o una giacca pesante. Per fortuna Norina gliene presta una. Le è ovviamente un po’ stretta di busto, date le differenze tra le due, ma è già un gran sollievo poterla indossare. 

Frotte di bambini si recano alla messa del fanciullo. Sbraitano ad alta voce su chi mangerà più biscotti e berrà più tazze di cioccolato in canonica durante la predica della messa successiva. Diomira immagina il grande tavolo del refettorio dell’orfanotrofio e il vociare festoso della colazione dell’Epifania, l’unico giorno in cui veniva servita la cioccolata con i biscotti. E poi c’erano quei signori che arrivavano con le caramelle, le arance, le noci, che per un giorno all’anno li rendevano simili agli altri bambini. 

Carla è vicino alla porta a vetri del Caffè Garibaldi che la sta aspettando. “Hai fatto colazione?” “No, in questi giorni mi sono dimenticata cosa possa essere. Norina che mi ospita, non sa nemmeno cosa sia un piacere come il caffè alla mattina!”. Entrano e Carla dice al suo collega che Diomira sarà sua ospite, e rivolta verso Diomira la rassicura sottovoce, sorridendo e strizzandole l’occhio : “Non ti preoccupare, mi trattano bene! Io più che un caffè prenderei una cioccolata, cosa ne dici?” Diomira non sapeva chi ringraziare per essere stata esaudita e racconta a Carla dei bambini che correvano per andare a Messa e che ai loro discorsi, le era rimasta l’acquolina in bocca.

Il tempo passa in fretta con così tante cose da raccontare. Carla è sbigottita dal racconto di Diomira ed ha ben poco in verità da raccontare della sua: “Ho compiuto 21 anni a giugno e ho dovuto lasciare l’istituto. Però mi hanno aiutato a trovare un lavoro e una casa assieme ad una altra ragazza. Una settimana fa si è sposata, perché come succede solitamente a molte di noi, il primo di cui ti innamori ti mette incinta e lei è stata anche fortunata che l’ha sposata!” “Arriviamo fuori da quell’istituto che non sappiamo nulla. Tutto quello che sapevo io era dai fotoromanzi, ma poi è solo una parte di quello che devi sapere! Tutto sommato sono stata fortunata e in più ho trovato chi stava attento a non fare stupidaggini, la paura di dover sposare un’orfana senza dote era grande!” “Ma perché non vieni a vivere da me, a te risolverebbe un grosso problema, e io devo per forza trovarmi qualcuno con cui dividere la spesa della casa, da sola non ce la farei mai”. “Posso venire anche subito? Poi ci conosciamo bene, quanti anni abbiamo diviso assieme!”

Diomira si precipita verso casa di Norina. Entra nella nube di esalazioni alcoliche e già pensa come abbia potuto resistere per quasi una settimana in quella casa. Nel sentire il rientro di Diomira, Norina si sveglia dal suo stato comatoso e vedendola preparare la borsa, riesce a stento a capire cosa stesse succedendo. Ripresasi un po’, si sente, tutto sommato, liberata da quell’impegno, forse un po’ avventatamente preso qualche pomeriggio fa. Diomira la ringrazia e la abbraccia ma molto rapidamente, è veramente difficile starle vicino, come facciano poi gli uomini a giacere con lei, questo le rimane un mistero! 

Poi passa a salutare Norma e Livietta, tanto loro due si vedranno al lavoro. Anche loro si sentono sollevate per la soluzione trovata da Diomira, non è più in casa di Norina e questo le preoccupava non poco e inoltre, va ad abitare con una persona che conosce bene e con cui ha già passato parte della sua vita.

Carla la sta aspettando fuori dal portone: “ Abbiamo un po’ di strada da fare, ma non molto. La casa è a san Rocco”. “ Ma è vicino all’istituto! Non mi fai uno scherzo vero?” Diomira sorride ma guarda bene negli occhi Carla. “No figurati, ha la cucina, due camere, il bagno in casa e anche l’orto. E’ il pianterreno di una casa signorile, forse l’abitazione del custode o del giardiniere. Sono sicura che ti piacerà”.

Quella strada Diomira se la ricorda, era quella che si faceva per andare in Duomo dall’istituto quando servivano i bambini orfani, da mettere in qualche angolo, in qualche cerimonia; Corso Fogazzaro, Soccorso Soccorsetto, via San Rocco, sotto i portici. “Eccoci arrivate”. Un grosso portone marron scuro, con l’altezza e la larghezza giusta per far passare un calesse. Un ampio androne, a sinistra le scale che portano ai piani nobili. Loro invece escono fuori dall’androne su un piccolo piazzale pavimentato con sassi rotondi, sulla sinistra  quasi alla fine della parete, la porta d’ingresso del loro appartamento. Per quei tempi e per quello che aveva visto nella casa in stradella, questa a Diomira sembra una reggia . Pavimento con palladiana rosata, pareti bianche, il bagno con  separato anche un lavatoio e uno strano strumento di cui non capisce la possibilità di utilizzo: “Quello? E’ il bidet, poi ti spiego come usarlo, ti garantisco che ti piacerà molto, e non potrai farne a meno! La prima camera è la tua, al momento c’è solo il letto, divideremo l’armadio che è nella mia camera.” Che sogno! 

Capitolo XIII

Carla, capelli un po’ mossi castani, due occhi verdi che sorridono sempre, però pronti ad essere abbassati se incrociano lo sguardo altrui. Non è facile, per ragazze che provengono da un istituto, inserirsi nella vita di tutti i giorni. Il rischio di rimanere emarginate, nelle forme più varie, è notevole. C’è chi rimane rinchiusa in sé stessa e non riesce ad avere una vita sociale e diventerà una disadattata, una persone che non riuscirà mai uscire dal suo guscio fisico o mentale. Chi invece si lascerà travolgere dallo spirito di libertà conquistata senza sapere cosa essa possa essere, facendosi travolgere da compagnie più o meno sbagliate. C’è chi, come la compagna precedente di appartamento di Carla, si trova incinta e per fortuna non ha trovato quello sbagliato e ha potuto sposarsi. Altre faranno incontri con qualche orco che le porterà sulla strada a vendere sé stesse per poter sopravvivere. Carla  possiede una qualità indispensabile per una persona con il suo vissuto, la resilienza. E’ una caratteristica di poche, è sapersi modificare, è resistere alle difficoltà e ai cambiamenti della vita, è decidere e non rimanere in balia dei fatti, è saper trovare il proprio giusto equilibrio per muoversi nel mondo. Non è di certo una caratteristica di Diomira, che ha sempre la necessità di appoggiarsi a qualcuno, ma la convivenza con Carla può esserle di aiuto, per lo meno a non compiere passi avventati.

Le due ragazze assieme si trovano bene, rispettano lo spazio l’una dell’altra, conducono vite con orari diversi, il che consente loro anche di avere dei momenti solo per loro. Questo piace molto a Diomira. Uscire nell’orto a prendere un po’ di sole e di aria e leggere un romanzo rosa o un fotoromanzo. Quando si immerge nella lettura dimentica tutto, anche di fare quei pochi lavori di casa che le spetterebbero. Fortunatamente Carla è paziente e non bada molto a queste cose, sa perfettamente che Diomira non è proprio in grado di svolgere le faccende domestiche, è completamente negata, a lei piace solo cucire e ricamare, è stata praticamente allevata solo per far quello. Invece lei, in un battibaleno è tutto fatto e bene!

Toni è soddisfatto del lavoro di Diomira e oltre ad assumerla in regola, comincia ad affidarle anche lavori diversi dalle solite asole dei bottoni. Una sera, Diomira prende coraggio e chiede a Toni: “Se avessi necessità di confezionarmi qualche abito per me potrei fermarmi alla sera per tagliarli e cucirli a macchina?” “Dopo che hai fatto il tuo lavoro puoi fermarti, ma devi portarti filo e tutto il materiale occorrente.” “Quelli che adopero sono scampoli di stoffa per lo più colorati, e anche i fili sono colorati, qui lei il massimo del colore è il blù scuro per il filo, sono tutte cose che a me in ogni caso non servirebbero.” Toni ha già concesso ad altre ragazze di fermarsi e tutto sommato, avere un po’ di compagnia nelle ore serali, dopo la chiusura, non gli dispiace. Non è che ci siano grandi discorsi da fare, ma ci sono sempre clienti che arrivano sul tardi o magari qualche amico con cui bere un goccio in compagnia, ed è un gran bel vantaggio avere qualcuno che rimane in laboratorio senza doverlo pagare. 

“Mi provo il vestito, se avessi bisogno di un consiglio me lo può dare? Un suo consiglio sicuramente mi farà fare bella figura a Capodanno.” Toni fa sempre in modo di essere presente quando c’è Diomira che rimane per farsi un vestito. Guardare verso la tenda con la coda dell’occhio e vedere che con delicatezza, per non strappare il filo di imbastitura, indossa l’abito, facendolo scivolare sulla sottoveste, vedere la stoffa che si adagia sulle sue forme, è irrinunciabile per lui. E’ tornare giovane, quando la gamba funzionava ancora bene, quando poteva competere con gli altri giovani per la conquista delle ragazze. Vederla uscire da dietro la tenda , piedi scalzi, con il corpo e il collo ritti che si dirige verso lo specchio e sentire che chiede il suo parere, è il momento lui che aspetta e il cuore gli batte forte. Nessun problema, Toni è un brav’uomo, ma si gusta questa forma di piacere. Il piacere di sfiorare le forme di Diomira per sistemare la stoffa, togliere una piega, appuntare uno spillo. Può sentire il calore della pelle delle sue gambe sulle nocche delle sue dita. Toni è dell’idea, che se tentasse di fare qualcosa, avrebbe buone possibilità di perdere una brava lavorante, sarebbe un piacere fuggevole di qualche attimo e niente di più. Crede invece nel fatto che un piacere così, malizioso, sfiorato, ti rimanga dentro, non lo dimentichi, che sia una forma di piacere superiore per la mente, meno animalesco, più poetico. 

Quando sanno che deve fermarsi, l’indomani le compagne di lavoro interrogano Diomira per sapere se Toni l’ha sfiorata come cerca di fare con loro però non riuscendoci. “Mi ha aiutato a sistemare il vestito, ha messo degli spilli, mi ha dato dei giusti consigli. Ma dite che facesse apposta a sistemarmi la stoffa? A me sembrava facesse il suo lavoro.” “Quanto sei ingenua Diomira, se non fosse per i particolari che ci hai raccontato potrebbe venirci il dubbio che la storia della Sicilia sia tutta inventata!” Una risata smorzata appena in tempo: “Attente è qui Toni!”

San Silvestro è di lunedì e come tutti i lunedì si lavora fino alle sei di sera. Toni fa fatica a contenere le ragazze durante la giornata. Un chiacchiericcio continuo fuori dall’ordinario. Tutte fanno progetti per il 1952 e per la serata di danza che dovrà essere indimenticabile. Ermes suonerà al Garibaldi e così Livietta potrà andare al veglione con il suo Vito. Ormai parlano di fidanzamento e di nozze. Ermes e Norma hanno acconsentito, ma dopo che Livietta avrà fatto i 21 anni, l’importante è che Vito possa frequentare casa loro, come sempre sotto gli occhi vigili di Ermes. Qualche volta Livietta vorrebbe dire a Diomira e Carla quanto siano fortunate a poter agire come vogliono, ma poi pensa a quale sia stato il prezzo di quella libertà, ammesso che tale sia.

Carla deve recarsi al lavoro molto prima, per lei sarà un veglione di lavoro, ma già si pregusta il vedere Diomira nel suo nuovo vestito danzare elegante e far girare la testa agli uomini in sala. Diomira passa prima da Livietta e assieme con Norma e Vito arrivano al Garibaldi. Dentro a quel modesto cappotto, rimediato di seconda mano, non si può ancora vedere la vanessa che ne sta uscendo. Eccola che sale la scalinata che porta al piano superiore. Il suo ingresso nel salone non passa inosservato agli sguardi maschili e tantomeno a quelli invidiosi femminili. I capelli corti mettono in risalto il volto e il colore candido della sua pelle. Tutto viene fatto risaltare dalle labbra color rosso e dal vestito di identico colore, tanto da far sembrare che dentro vi sia contenuta una farfalla che sta uscendo dal bozzolo scoprendo le spalle nude. L’effetto è incantevole, completato dai suoi fianchi strettissimi da cui parte la gonna un po’ a campana che le copre appena il ginocchio. La stoffa non è sicuramente pregiata ma la bravura di Diomira con i consigli di toni l’ha trasformata. Le scarpe sono la parte meno appariscente, però hanno un po’  di tacco e spera tanto di ritornarle a Carla tutte intere. Norma è orgogliosa di portare su per i gradini del Caffè due meraviglie come Livietta e Diomira e le piace poter essere scambiata per la madre di tutte e due. Quando entra nel salone, cerca lo sguardo di Ermes e gli fa un cenno complice, perché osservi la presenza delle due reginette al centro dell’attenzione generale.

“Le note” esegue tanghi e valzer che vanno per la maggiore, qualche mazurca e polka. Diomira non perde un ballo, i non accoppiati si accalcano vicino alla sua sedia, in fila, non senza qualche piccola, celata, tensione. Ma qualche uomo più avanti nell’età, scaricata la moglie, che reclama per il male ai piedi con le scarpe nuove, riesce a scavalcare la fila e con fare da finto tonto la prende al volo per un ballo. Lei si diverte di tutto ciò, i più avanti nell’età, con qualche bicchiere di vino in corpo, sono più gioiosi, le piazzano la pancia sullo stomaco, la fanno volteggiare contenti di averla tra le braccia e lei sorride felice. E’ l’ultimo dell’anno bisogna divertirsi, ma non hanno messo in conto quanto cara la pagheranno il primo dell’anno una volta a casa. Le donne sopportano tanto, ma le forme di vendetta passiva, una volta tra le mura domestiche, con musi lunghi e rifiuti di parola e di corpo, riducono l’uomo ad agnellino. 

Tra i ballerini di Diomira non c’è nessuno di interessante, sono sempre gli stessi, quelli che quasi ogni volta che c’è un ballo al Garibaldi fanno la fila sperando di attirare la sua attenzione. Qualcuno prende coraggio e fa proposte , più  o meno serie , che lei svia: “Sono qui per ballare e voglio solo questo!” Ma dopo il brindisi di mezzanotte, voce compresa nel biglietto d’ingresso, le prime persone più anziane cominciano a tornare a casa, la sala diventa meno affollata. Anche la musica è più intima, qualche swing dall’America. I musicisti, quelli veri, de “Le Note” amano questa musica, possono esprimersi, mettere nello strumento il loro stato d’animo, che come per magia, entra nelle persone che danzano cheek to cheek. 

“Posso?” Diomira alza lo sguardo verso il giovane, alto, capelli scuri, con occhi bruni che gli conferiscono uno sguardo profondo, fronte spaziosa con un volto magro, ma con dei lineamenti gentili. Veste scuro, con una camicia bianca col colletto perfettamente inamidato. Non è uno degli abituè del Caffè, uno così non può passare inosservato. Diomira si alza dalla sedia aiutata dalla mano che l’uomo le porge. 

“Heaven... I'm in heaven,…..”  e la canzone continua con i due in mezzo alla pista che girano, volteggiano, percorrendo il perimetro della sala, sentendosi un po’ Ginger, un po’ Fred. Quando la musica termina, Diomira non va verso il suo posto, rimane ferma con la mano stretta nella sua che capisce e la stringe ancora più forte, e la musica riparte.

Sono gli ultimi a smettere di ballare, “Le note” sono esauste, così come i camerieri. “Questa era l’ultima, buon anno a tutti”.

I due si guardano incantati, il cuore batte a mille, ma non certo per la fatica del ballo. Sono ancora mano nella mano, al centro, si guardano  e contemporaneamente si rivolgono l’una all’altro: “Come ti chiami?”  “Diomira”, “Danilo”.


Capitolo XIV

Danilo ha quasi 26 anni, ha fatto in tempo a fare un pezzetto di guerra anche lui, come guardia portuale a Venezia, sotto la Repubblica di Salò. E’ figlio di una famiglia orafa molto in vista della città, con una sede anche a Milano e rappresentanti in vari paesi Europei. Sta per laurearsi in architettura, ancora due esami questo mese e poi la tesi, che ha già iniziato. Fa grandi progetti per il futuro, ma sa perfettamente che difficilmente potrà esimersi dal considerare anche la possibilità di un suo inserimento nell’azienda di famiglia, in quanto il padre ha già espresso la volontà di averlo accanto nel dirigere la baracca e allargare i mercati. 

Alla chiusura del Caffè i due girarono per la città, senza meta, passando più volte per la stessa strada, ma che importa.

“Questa sera ero solo, perché ho litigato con Emma, la mia ragazza, anzi la mia ex ragazza, ci siamo lasciati poco prima della festa. Ha un sacco di dubbi per la testa, non era più come una volta, ho l’impressione che abbia qualcun altro, ma va bene così, ormai era tutto logoro”. “A me basta stare assieme a te, non ti chiedo altro, non ti farò scenate, non conosco la gelosia, ti sembrerò strana, anzi forse sono effettivamente strana!”  All’alba lui la riaccompagna verso i portici di San Rocco e sul portone la bacia appassionatamente stringendole la nuca e cingendole i fianchi. Diomira vorrebbe farlo entrare, ma sa che Carla probabilmente sta dormendo dopo una giornata estenuante. Un ultimo bacio e una carezza, il sorriso di lui l’accompagna mentre dà un’ultima sbirciatina finché il portone si chiude. Cammina leggera sotto l’androne buio, cercando di non far rumore con i tacchi. Quando entra in casa trova Carla ancora alzata, è appena rientrata dopo aver riordinato la sala e lavato piatti e bicchieri. 

“Dimmi tutto! Non ci posso credere, proprio Danilo!!!” Carla è euforica tanto quanto, se non di più, di Diomira. Alle due non passa minimamente per la testa di andare a letto, e l’adrenalina che tutte e due hanno addosso è talmente tanta che il sonno è completamente svanito, ci sono troppe cose da rivivere e da farsi raccontare. Verso le 10 crollano e si addormentano vestite sul letto di Diomira. Intorpidita per la posizione, Carla si risveglia verso le 16, appena in tempo per prepararsi per andare al lavoro. Diomira si sveglia sotto le sue coperte due ore dopo. Carla le aveva rimboccato le coperte e si gode ancora un po’ quel calduccio. 

Ad un tratto sente qualcosa che le manca, sente che è l’aria a mancarle, è il desiderio irrefrenabile di Danilo e i pensieri cominciano ad assalirla: “ Come farò a rivederlo, lui sa dove abito, ma io non so dove abita lui. Ero così presa dai suoi baci che mi sono scordata di chiedere quando vederci, di darci un appuntamento, nulla di nulla. L’unica speranza è che lui mi cerchi o forse Carla sa dove abita?”. Le sembra di trascorrere una notte insonne, ma non si accorge nemmeno del rientro di Carla, verso le 10 di sera, finito il lavoro. 

Alla mattina, come al solito, è Carla che fa da sveglia, se non fosse per lei Diomira arriverebbe al lavoro sempre in ritardo. Diomira di corsa attraversa l’androne indossando il cappotto al volo e mettendosi un foulard in testa, che oggi fa molto freddo! Apre il portone e sotto l’arco dei portici vede Danilo.  Le butta le braccia al collo e lo bacia prima sulla guancia, quasi timorosa e poi intensamente sulle labbra. Si mette a ridere liberata dall’incubo: “Ti conviene pulirti. Ti ho lasciato uno stampo sulla guancia col rossetto! Da quanto sei qui?” gli dice prendendolo sotto braccio e cominciando camminare. “Dalle 6 e mezza, non sapevo a che ora cominciassi, magari alle 7, 7 e mezzo boh? Non volevo perderti! Non ci siamo nemmeno detti come trovarci! Ti accompagno per un tratto, poi vado vedo la stazione per prendere il treno delle 8,05 per Venezia.”

Sono tutti e due sollevati, sanno che l’uno cerca l’altra. Arrivati in Corso, Diomira fa per salutare Danilo, ma lui ha già fatto i calcoli che può farcela portandola avanti per un altro po’, fino alla fine del Corso. Un altro paio di minuti assieme, un bacio appassionato: “Ti vengo a prendere stasera, so dov’è la sartoria!” E poi via di corsa verso la stazione. 

Alla sera, due giovanotti in bicicletta stazionano davanti alla sartoria. Vito e Danilo stanno aspettando le loro ragazze. “ Sei mai salita sul palo” “ No mai, non è che facciamo un capitombolo?” “ Non ti preoccupare, trovi l punto di equilibrio e poi ti tengo io con il braccio, non puoi cadere”. Vito con Livietta, fanno un giro più largo, in modo da evitare qualche osteria frequentata da Ermes, Danilo e Diomira puntano dritti verso casa di lei. L’aria è pungente ed entra su per le gambe di Diomira, ma non si lamenta, è troppo felice, è troppo bello anche il solo fatto di non fare fatica a camminare. Appena arrivano sotto i portici e scende dalla bicicletta. “Entra! Metti sotto l’androne la bicicletta, ti riscaldi un po’, fa un freddo cane. E non mi dire non vorrei disturbare, Carla non c’è, è al lavoro almeno fino alle 10.” Era quello che lui aspettava, restare soli in un posto caldo e familiare. Appena entrati un bacio e poi un altro. Diomira lo ferma, e ravviva il fuoco della stufa mettendo qualche pezzo di legno ad ardere. Il fuoco comincia a crepitare nella stufa e dal foro del cerchio centrale si intravvedono le fiamme. Tutti e due si appoggiano alla stufa e si riscaldano le mani e il corpo. Un po’ alla volta il caldo li costringe a togliersi qualche indumento, e quando le mani sono ben calde, cominciano a scivolare sotto gli indumenti dell’uno e dell’altra, in una serie di carezze, prima dolci e poi tese verso il piacere dell’altro. In camera di Diomira non è ancora così caldo, ma sotto la trapunta di lana la temperatura si scalda ben presto. Lui è dolce ma forte, deciso ma non ha fretta come altri che Diomira ha conosciuto. Ogni gesto ogni carezza è finalizzata al piacere di lei. Diomira lo comprende e si abbandona completamente, è nelle sue mani, lascia che il suo uomo conduca quella danza, capisce che il piacere suo è anche il piacere di lui, che sa attendere, provando così una soddisfazione interiore sempre più grande come uomo nel godere di lei. Più lei gode, più lui si sente uomo, appagato. La continua felicità raggiunta da lei è la meta che va congiunta con la propria, nel momento giusto dove lei arrende completamente i propri sensi per rimanere avvinghiati, esausti. Danilo sente che il corpo sotto di lui, non respira, e si è accorto solo ora. Si solleva e osserva il volto di Diomira, non è sofferente, è disteso, rilassato. Gli occhi sono semiaperti. Danilo mette l’orecchio sul petto di lei, il cuore batte. Un lungo attimo e un profondo respiro di lei, come ritornata alla vita.  “Mi hai fatto morire dallo spavento! Ma cosa ti è successo?” Diomira risponde lentamente e con sottovoce: “ Nulla, sto benissimo, mai sentita meglio. Vedevo e sentivo tutto, ma era come un’onda mi avesse spinta in alto e io fossi sopra questo letto che osservassi noi due. Poi mi hai appoggiato quell’orecchio freddo sul petto e mi sono ricordata di respirare. Mi devo preoccupare?” “ Non credo proprio, hai provato il massimo, quello di cui parlano alcuni  libri orientali che ci passiamo noi all’università, ti confesso in maniera molto pruriginosa. Ma è una esperienza di pochi, io non ne conosco, no non è vero ne conosco una adesso! Solo l’abbandono totale e assoluto, il perdere il proprio ego, a capire cosa possa voler dire, ti permette una esperienza simile!” “ Ma io non ci capisco niente, parli troppo difficile” “ Infatti, parlo troppo difficile, per queste cose ci vogliono anime semplici, menti semplici. E anche incontrare l’uomo che ce la mette tutta!” Danilo la prende e la tuffa sotto la trapunta riempiendola di solletico in ogni angolo del corpo, lei non sa trattenere le grida e le risate. Lui le tappa la  bocca: “ Shhh vuoi farti sfrattare dalla padrona di casa?” Lei con gli occhi che luccicano: “Smettila tu, vuoi proprio farmi morire stasera!”

Quando rientra, Carla li trova addormentati sotto la trapunta, e dopo essersi fatta da mangiare, nell’andare a letto, cerca di fare un po’ di rumore nella speranza che Danilo possa svegliarsi e ritornare a casa, meglio evitargli conseguenze con i suoi. Dalla sua stanza sente gli ultimi baci, la porta che si chiude e i passi di lui che si avvia verso l’androne.

Capitolo XV

Diomira non fa calcoli, non fa programmi, vive il momento, anche di sofferenza per quelli senza di lui, ma di grande felicità in quelli al suo fianco. Lei sa solo cucire e ricamare, non sa cucinare, non sa fare i lavori domestici che sono richiesti ad una brava donna di casa dei tempi moderni, non è capace di fare la padrona di casa e nemmeno vorrebbe interpretarne il ruolo. Lei si abbandona completamente alle braccia che la accolgono. La sua semplicità e la sua ingenuità fanno sì che lei si fidi delle persone che ha accanto. Non mette malizia nei suoi comportamenti, non ha la furbizia, né l’astuzia per un tale comportamento. Si può dire che non è una donna di 23 anni, ma una bambina, che vive questi momenti con l’ingenuità con cui li vivrebbe una bambina. E’ vulnerabile, ma anche scostante, la sua mente non vive in un mondo di adulti, ma in uno di fantasia, di giochi, e con Danilo le piace tanto giocare.

Sabato sera arriva e Danilo alle 5 è fuori dalla sartoria che l’aspetta. Raggiante lei sale sul palo della bici e volano verso S. Rocco. “Quando arriviamo c’è una sorpresa per te!” “ Come una sorpresa?” “ Non potevo portarla qui, gli altri avrebbero visto”. Diomira diventa curiosa come un bambino: “Dimmi, dimmi, non posso aspettare!” E lui ridendo contento di farla soffrire un po’:“No , no, devi saper aspettare”. Quando arrivano passano sotto l’androne di casa, sulla porta dell’appartamento Diomira vede una bicicletta con un fiocco rosa sopra. “ E’ quella la sorpresa? Per me? Ma io non so andare!!” “ Domani pomeriggio sarà tutto per insegnarti ad andare in bicicletta” “Sei sicuro? Proprio tutto, tutto?” Ridendo Danilo le risponde: “ Speriamo non serva proprio tutto, tu sei brava e impari presto!”

E come una bambina, Diomira era felice del regalo e lo dimostrò a lui nel modo che più le riusciva bene. Ha capito quanto lui si senta appagato come uomo da quel suo abbandono assoluto tra le sue braccia. E lui le fa provare nuove sensazioni. La abbraccia da dietro e la tiene stretta, i due corpi si conformano nelle curve. “Respiriamo assieme, senti il mio respiro che sale e poi scende e lo facciamo assieme”. Diomira non capisce, ma Danilo le preme una mano sul ventre e l’altra sul petto, e accompagna il suo respiro con le mani e premendo forte e poi rilasciando. Diomira capisce, e luì può rallentare il respiro e la forza sulle mani. I due corpi si muovono ritmicamente in una comunione di respiri, di battiti del cuore. Pur non essendoci nient’altro che il respiro, le loro menti si abbandonano a quei momenti di silenzio assoluto e di attenzione al movimento e al respiro dell’altro. “ Che bello Danilo! Mi sembrava che tu fossi dentro di me, non voglio dire che sia meglio di quando  lo sei per davvero, quello no, ma è un’altra cosa, un altro modo di essermi dentro.” “Vedo che non devo spiegarti nulla di quello che è successo, sono appagato anch’io con te, sei dannatamente diversa dalle altre, non riesco a crederci che esista una donna come te!”

“Tienimi Danilo altrimenti cado. Non fare scherzi!”. “Dai che non ti vede nessuno. Guarda avanti e sta dritta”. “ Sei un brigante.  Sicuro che il dito sulla sella devi tenerlo così?” Lei pedala e barcolla un po’ ma, dopo due giri su San Rocco, Danilo le corre sempre appresso, ma le mostra tutte e due le mani e ride: “Brava! Hai visto?” “ Come faccio a fermarmi? “Frena! Frena!” Danilo corre all’impazzata e riesce a prendere il freno e premerlo prima che lei finisca contro il muro. Per il brusco arresto scende di sella andando a finire tra le braccia di lui: “Grazie amore mio!” “ Adesso hai imparato che devi usare i freni per fermarti”.

Con sua la bicicletta, anche la bellezza di Diomira scorrazza per la città, emula del film che va nelle sale di questi tempi. Si sente un po’ Delia e un po’ Silvana. Il film l’ha visto al Kursal, vicino casa, con Carla una domenica che tutte e due erano libere. Adesso che comincia a fare qualche giornata più tiepida, lei corre per il Corso, fino alla stazione ad aspettare Danilo che torna da Venezia. Lui ha già dato i due esami e tra qualche giorno, il 22 aprile, sarà il giorno della discussione della tesi. Poi si apre una nuova vita, anche con delle incognite a cui però Diomira non pensa. 

“Vai piano! Capisco che hai un fisico che potresti fare qualunque sport, e hai fretta di arrivare a casa. Ti sorpasso, ti sorpasso lumaca!” I due scherzano con le loro biciclette rincorrendosi, e facendo finta di farsi prendere per poi ripartire, fino davanti il portone. Un bacio , poi un altro. “ Non puoi darmeli dentro tutti questi baci?” Ogni giorno sempre con più travolgente passione, sempre più complici in quel loro gioco. Nessuno dei due chiede, nessuno dei due si aspetta qualcosa dall’altro, sa già quello che rende felice l’altro e lo fa sapendo che l’altro farà lo stesso. Nessuno dei due affida la propria felicità nelle mani dell’altro, sa che la propria felicità dipende esclusivamente da sé stessi, nell’accettare il momento che è tutto quello che si può avere: il passato è già andato, il futuro nessuno può conoscerlo.

Però quella sera, abbracciati, Danilo è preoccupato, sta guardando avanti: “ Mio padre mi ha già detto che dovrò andare in Germania a seguire la nostra nuova filiale, non transige. Lui non sa nulla di noi” Diomira lo interrompe: “ Devi obbedire a tuo padre, il mio non l’ho mai conosciuto, per la verità ho visto poche volte anche mia madre, e forse era meglio che neanche la conoscessi. Faremo in qualche modo, intanto tu ti sistemerai, farai contento tuo padre. E poi qualche settimana distanti non farà male a nessuno dei due”. Danilo non dice nulla, sa che le cose potrebbero essere molto diverse da quello che Diomira pensa. 

E’ il giorno della discussione della tesi, Danilo sa già che non potrà avere il massimo dei voti, ma conta ugualmente su una buona votazione finale. Ha avuto qualche incertezza nei primi anni, ma poi si era ben ripreso. Pensava di aver scelto una facoltà artistica, ma ben presto si accorse che fare l’architetto significava studiare i materiali, calcoli a non finire e questo inizialmente l’aveva un po’ disorientato. E’ il momento della proclamazione, Danilo è chiaramente soddisfatto e all’uscita dall’aula viene portato per le calli di Venezia per i classici festeggiamenti goliardici che non potrà mai raccontare a Diomira.

Lei attende con impazienza  il  risultato cucendo pantaloni.  Chiaramente, adducendo problemi a chiedere un permesso al lavoro, non è andata a Venezia. Inoltre  c’erano i parenti di Danilo e  questo bastava e avanzava per non andarci. E poi sarebbe stata come un pesce fuor d’acqua ,mettendo probabilmente  Danilo in imbarazzo con i suoi amici, così diversi e colti da lei, che ha fatto solo le elementari. Quella sera Danilo non arriva, ma lui l’aveva avvisata che i festeggiamenti con suoi compagni di corso sarebbero stati lunghi e piuttosto deplorevoli per le persone perbene. Capita la sera dopo davanti alla sartoria, l’occhio spento e gonfio di chi non ha ancora completamente smaltito una grossa sbornia. “ Cosa fai qui in queste condizioni?” “No, no sto bene, ed è andato tutto bene sai” “Vedo ma adesso mi accompagni e poi te ne vai a casa a letto, non puoi andare in giro così” “Si, hai ragione e non mi sento proprio niente bene, e poi se ti facessi respirare stasera ti addormenterei in un attimo con l’alito alcolico che mi ritrovo. Ma sono venuto a prenderti perché devi tornare dentro e chiedere a Toni se ti lascia libera sabato, che viene dopo la festa della Liberazione. Ho una sorpresa per te, è un regalo dei miei genitori per la laurea e potremo passare 3 giorni assieme”  

Diomira rientra in sartoria. Toni non vuol concederle il giorno di riposo, ma a lei viene un’idea: “Ma sei io oggi e domani faccio due ore in più e poi anche lunedì e martedì, farei lo stesso lavoro!” Toni, che tutto sommato è burbero, ma  ha un occhio, per così dire, di riguardo verso Diomira, acconsente. Lei vola versa Danilo e gli prende la sella e lo spinge: “ Va bene me l’ha acconsentito, ma tu adesso vai a casa e rimettiti in riga, io devo tornar dentro a lavorare”. Lui zigzagando si rimette sulla strada. Lei si mette le mani tra i capelli: “Stai attento!”

Capitolo XVI

I due sono diretti alla stazione. Lui la tiene all’oscuro di tutto, vuole che sia tutta una sorpresa. Il treno arriva, ma non è come i treni accelerati che Diomira ha usato nel suo viaggio di 6 mesi fa, E’ un elettrotreno, vanto delle ferrovie italiane, che prima della guerra aveva battuto tutti i record mondiali di velocità e arredato da uno dei più grandi architetti al mondo. Danilo sfoggia il suo sapere anche ferroviario e fa accomodare Diomira in prima classe, dagli ampi e comodi sedili ricoperti di un velluto verde. Che viaggiare da sogno, lo capirai tra poco. Diomira vede sfilare velocemente tante piccole stazioni, è talmente veloce che non riesce a leggere i nomi delle stazioni. “ Ma non si ferma alle stazioni?” “ No farà solamente due fermate. La prima è questa, vedi che ora sta rallentando?” Il capotreno in prima classe annuncia “ Padovaaaaa!”. Diomira, che chiaramente poco capisce di geografia e di treni chiede: “Ma dove stiamo andando?Dimmelo!”, lui se la ride di gusto! Divertita e sorridente, con il naso spiaccicato sul vetro, guarda fuori la teoria di passaggi a livello che si susseguono, su strade o su tratturi di campagna. I casellanti, che sono sulla soglia del casello, prestano attenzione che i pedoni e i ciclisti imprudentemente non oltrepassino le sbarre. 

Poi ad un tratto lei vede che il treno corre in mezzo all’acqua: “Ma dove siamo?” “ In mezzo al mare”. Lei lo guarda incredula. “ Guarda in fondo, non vedi una città? Quei campanili, quelle cupole? E’ Venezia! Tre giorni a Venezia , io e te””.

Fuori dalla stazione montano su un vaporetto. Lei si siede davanti, in ginocchio sul sedile, vento in faccia, a guardare la prua che taglia l’acqua. “Ma sembrano le case della stradella, ma con l’acqua sotto”. “Sarebbe più esatto dire che quelle della stradella assomigliano a queste, visto che la nostra città era un territorio conquistato dai veneziani e vi hanno costruito le case con la loro architettura”. “Il signor architetto che sa tutto” e si volge verso lui con un bacio che sa di grazie per quei momenti. 

Venezia è in festa, oltre a celebrare la liberazione e la festa del patrono San Marco, a Venezia si celebra la festa del bòcolo. Ogni innamorato regala al suo amore un bocciolo di rosa rossa a simboleggiare il bocciolo insanguinato dal morente eroe Tancredi a Roncisvalle, il quale incaricò Orlando di portarlo a Venezia alla sua bella Maria.

Arrivano all’Hotel Riviera, e finalmente anche Danilo può regalare il bòcolo alla sua innamorata e lo fa  sulla terrazza, da dove si gode la vista di tutta Venezia, con le sue cupole e i suoi campanili. Dovrebbero girare per Venezia, visitare calli, chiese e musei, ma oggi di certo, con la scusa che c’è troppa gente in giro, la voglia non c’è. E’ una giornata limpidissima, le finestre sono aperte e la tenda trasparente della camera svolazza alla brezza del mare. Dal grande letto, guardando fuori verso il terrazzo, si vede la laguna e in fondo Venezia con i suoi palazzi, con dietro le lontane montagne ancora innevate che le fanno da corona, per finire il quadro con un cielo blù cobalto. C’è voglia di baci e di carezze, di godere di tutto quello splendore là fuori. La bellezza di Venezia non è solo nei suoi monumenti, ma anche nelle sensazioni che ti fa provare al solo guardarla, ad ascoltare il rumore del mare, dei gabbiani, delle campane, dei profumi di sale, di fiori e di alberi  mediterranei che salgono alle narici. I due si abbandonano completamente a quella sensazione, si lasciano trasportare all’interno di quella magia dei sensi, lasciando che i propri vengano cullati e fusi nelle immagini, nei suoni, nei profumi che in quel momento la città donava. Il regalo finale di Venezia è dello stesso colore del bòcolo. I due sono abbracciati sul letto ma una frizzante brezza, che entra dal balcone, li desta per ricoprirsi. L’acqua e il cielo sono trafitti dalle lame rosse e gialle del tramonto. I due si coprono e si mettono sul balcone per vedere il sole che scompare all’orizzonte verso la terraferma. Dopo aver assopito, per un po’, la forza dei loro sensi, sentono che lo stomaco reclama la sua parte. “Stasera ti porto in un posticino dove si mangia del buonissimo pesce” “Pesce? Ma puzza, no ,no” Danilo se la ride di gusto: “Vedrai ti piacerà, e poi ho già pagato, non vorrai farmi buttare via i soldi?” “Ommioddio mi farai morire, se devo proprio lo farò, ma due spaghetti al pomodoro no?” 

Diomira affronta la prima portata con sospetto, mangia con il labbro un po’ storto. Ma quando sente cosa vuol dire pesce e soprattutto che non sa proprio puzza come credeva, si lascia trasportare in quel mondo di sapori nuovi, facendo la felicità di Danilo che che adora insegnarle cose nuove. Per lui è una  cosa importante elevare Diomira, farla uscire dall’oscurità della sua scarsa educazione. Come per il pesce, farle assaporare le bellezze del mondo, senza grandi pretese di ricevere in cambio interesse e sete di sapere, ma solo per il piacere di stupirla, per vedere quegli occhi di bambina riempirsi di gioia o anche magari per sentirsi dire: “Vecchiume, quattro pietre una sopra l’altra!” e sedersi su quelle pietre e ridere!

Sulla spiaggia davanti al mare, lei racconta di un mare così trasparente che lui non ha mai visto. Le torna alla mente Capo Zafferano, della sua acqua verde smeraldo contornata da un mare blù profondo, e di quelle piscine di mare dove si poteva fare il bagno senza il pericolo delle onde. Danilo resta meravigliato, non pensava che anche lei potesse raccontargli di cose che lui non conosce. L’acqua del mare del Lido è pulita, ma è frammista alla sabbia, che il moto ondoso smuove e non risulta mai limpida, sembra sempre acqua di fiume piena di limo, bisogna proprio sia una giornata di mare piatto per vedere il fondo sabbioso, ma di certo non ci sono i colori di cui parla Diomira. 

Camminano sulla spiaggia fino a raggiungere il palazzo del cinema. Restano delusi, sapevano che non avrebbero trovato attori o attrici famosi, ma è tutto inaccessibile, un gran cantiere per ampliare il palazzo stesso per il grande successo che la mostra del cinema sta riscuotendo. “Non andavamo a lezione per vedere le attrici che arrivavano per la Mostra, delle bellezze incredibili. L’anno scorso ho visto Vivien Leigh, Rossella di Via col Vento, ha vinto un premio prestigioso, però avrei preferito vedere Rita Hayworth” “Ma guarda! Ce l’hai qui, cosa vuoi di più? Poi adesso quella è tutta impegnata con l’Aga Khan!” Ritornano verso l’hotel a piedi nudi sulla spiaggia. Lei fugge dalle onde che arrivano sul bagnasciuga, lui cammina, con i pantaloni arrotolati fino al ginocchio, con i piedi nell’acqua. 

Venezia si gira a piedi o in gondola. Diomira preferisce a piedi nonostante le insistenze di Danilo. Cerca di entusiasmarla con i suoi racconti sulle bellezze di Venezia, ma a lei interessa di più dar da mangiare ai piccioni di Piazza San Marco, che le vengono sulle mani, sulla testa. L’aveva già visto fare in un fotoromanzo da Sophia Lazzaro, che tra un bacio appassionato e l’altro, passando per la piazza, aveva comperato sacchetto di granturco per la gioia dei piccioni. “Anche se lei è un’attrice di fotoromanzi, riesco anch’io a circondarmi di piccioni” “La prossima volta vedrò di procurarmi una macchina fotografica, sei uno spettacolo e non sfigureresti proprio nel confronto con Sophia” “Ma va là! Prendimi in giro!”

Domenica sera. Tre giorni sono passati in fretta, come un dolce sogno notturno. Quando il treno comincia a frenare, i due si alzano per prepararsi a scendere. Stanno ritornando alla realtà. Tra due giorni Danilo partirà alla volta della Germania e domani dovrà preparare tutte le sue cose. Si scambiano promesse di scriversi tutti i giorni, che ogni mese lui verrà giù a trovarla, e magari lei potrà andare su per le ferie a trovarlo e visitare la Germania. Pieni di speranza, che però non riesce ad allontanare la pesantezza del cuore in quel momento, sotto i portici di San Rocco, i due si baciano, un bacio di arrivederci, ma pieno di paura per il loro futuro.

Capitolo XVII

Se vuoi penetrare nel mercato tedesco devi avere un negozio o una mostra a Pforzheim, la città dell’oro tedesca, ed è lì che Danilo arriva a fine aprile. Alla sera, seppur stanco, sia per la quantità, sia per la novità stessa del lavoro, riesce a trovare il tempo di scrivere una lettera a Diomira. Ma certo non è semplice intrattenere un rapporto epistolare. Le lettere impiegano circa una settimana ad arrivare, e la risposta impiega quindici giorni per tornare a destinazione. Inoltre per Danilo lo scrivere risulta semplice, altra cosa per Diomira, non è in grado di formulare frasi con all’interno concetti o sentimenti che non siano estremamente semplici ed elementari: “Caro amore, ti voglio tanto bene e spero che tu stia bene, ho voglia di rivederti. Quando pensi di venire in Italia?” Ma la risposta arriva dopo Danilo. Infatti, a fine Giugno, lui ritorna in Italia per portare nuovi ordini e ripartire con un nuovo campionario. Il viaggio in treno dura più di 24 ore ed è estenuante con 7/8 cambi di treno. Nonostante tutto, alla sera dell’arrivo Danilo corre da Diomira. La passione è sempre immutata tra i due, si cercano anche se le difficoltà di comunicazione a distanza sono innegabili. Anche questa sera respirano assieme, ma tutto ad un tratto, il respiro di Danilo è più pesante. Diomira lascia che le sue braccia continuino a stringerla anche se nel sonno, chissà quando potrà godere ancora di un momento come questo. 

“Diomira non sento più il braccio” si lamenta Danilo, ”Ho il braccio tutto freddo è informicolato e non riesco a muoverlo, che sensazione di impotenza!” “Ti massaggio io”. Con forza lei prende il braccio di lui e lo massaggia per ristabilire la circolazione. “Che ora ho fatto? E’ tardi devo andare” “Perché non rimani qui? Domani vai in laboratorio e poi prendi il treno nel pomeriggio. Domani mattina facciamo colazione assieme, non sarà come essere a Venezia e se vuoi possiamo farlo in orto, abbiamo un tavolo e due sedie fuori sotto la pergola”. “Non ce la farò mai a fare tutto quello che devo fare se rimango qui, devo proprio andare”. Danilo si alza e si veste. Dà un ultimo bacio a Diomira e si chiude la porta dietro le spalle. Lei si avvolge nelle lenzuola tentando di abbracciare e conservare l’odore del suo uomo, come ha visto fare in un  fotoromanzo in  cui c’era Sophia.

La mattina trova Carla, come sempre, già sveglia. Carla, oltre ad essere molto felice per loro due, sicuramente un po’ di morbosità ci mette nel voler sentire raccontare Diomira delle loro notti di passione. Sicuramente Diomira non è così pudica, nella sua spontaneità, da non raccontare tutto a Carla. “Ma dimmi, gliel’hai detto, come l’ha presa?” “Ma detto cosa?” “Beh viviamo assieme , non posso non accorgermi di certe cose. Sono due mesi che non ti vengono le mestruazioni, e tu sei sempre stata regolarissima” “Si è vero, ma non vedo cosa avrei dovuto dirgli” “ Ma Diomira, mi prendi in giro o cosa? Ma non pensi che potresti essere incinta? Con tutto quello che avete combinato assieme! Ma guarda, è vero che le suore non ci hanno detto nulla, ma avrai capito come nascono i bambini, o no?” Diomira resta senza parole. Non sa cosa pensare. Effettivamente lei non ci aveva mai pensato, proprio perché non poteva pensarci, perché per lei era un gioco, un divertimento riservato ai grandi, ma non si è mai resa conto di cosa stesse facendo, nessuno gliel’aveva insegnato e lei non aveva le capacità di arrivarci da sola. Succede anche nei fotoromanzi, ma non è esplicito il perché. Forse ora comincia a rendersene conto, ma senza sapere cosa voglia dire avere un figlio, cosa voglia dire diventare madre, è un insegnamento che non ha ricevuto e al contrario di quello che si possa pensare, un figlio si fa per natura, ma per diventare madre occorre l’esempio e quello che ha avuto lei non è quello che serve per allevare con amore ad un bambino.

Passano le settimane e anche i mesi. Carla è convinta che Diomira abbia raccontato tutto a Danilo nelle poche lettere che i due si scrivono, ma non è così. Diomira non trova né il coraggio, né il motivo, di dirgli che aspetta un figlio. Danilo le dice cha si è trovato un aiutante e che questo farà da spola con l’Italia e che per lui diventerà sempre più difficile tornare a casa, il lavoro è così tanto e la sua presenza è diventata indispensabile, ma in ogni lettera le assicura di amarla. Non ritorna neanche per le feste di Natale. Tutto sommato a Diomira la situazione sta bene, non vuole che Danilo la veda in quello stato, così ingrassata, con quella pancia, cosa ne può fare di una donna così?

Al lavoro Toni è arrabbiato con Diomira, in quanto solitamente, quando una donna si sposa deve licenziarsi,  o viene licenziata, questa è la regola per evitare di ritrovarsi con una lavoratrice incinta e che può rimanere a casa senza lavorare per 3 mesi e mezzo e in più la rogna di aver bambini piccoli che hanno sempre la febbre e le mamme non vanno a lavorare. Lei, non essendo sposata, si era coperta completamente le spalle, nel momento stesso che ha dichiarato di essere incinta non era più licenziabile. Così Toni la licenzierà sicuramente dopo le otto settimane di assenza obbligatoria successive al parto. Lei lavora, con il solito impegno, fino alla vigilia di Natale. Quel giorno sa già che quelle sono le ultime asole che farà in quel laboratorio, ma sa anche che Toni fa lavorare a casa le lavoranti migliori che si sono accasate e spera di poter avere anche lei quel trattamento di favore tra qualche mese. Per il momento meglio lasciarlo stare e tornare a suo tempo con il bambino tentando di impietosirlo, come le hanno consigliato le altre colleghe. Toni davanti ad una creatura e ad una giovane donna piangente cede sempre!

Il 3 febbraio 1953 la trova completamente impreparata, come donna e come madre. Carla capisce la situazione, e andato al lavoro la istruisce che se dovesse sentirsi tutta bagnata o avesse dei forti dolori alla pancia, di andare subito all’ospedale. E infatti dopo poche ore, quello che Carla le aveva detto sta succedendo.  Diomira, visto che l’ospedale e a circa un chilometro di distanza, ci va in bicicletta, con dolori terribili e fermandosi per strada più volte durante le contrazioni. Per fortuna il portiere del pronto soccorso, si accorge della situazione e avverte subito gli infermieri che la soccorrono. “ Ma signora! Ha messo a rischio la sua vita e quella del bambino”  Ma in fondo cosa poteva fare? Nel giro di una mezz’ora nasce una bambina. “Il padre c’è? Che nome mettiamo alla bambina?” “Il padre non lo sa” “Figlio del peccato!” sbotta la suora con sguardo denigrante e facendosi sentire da tutti! Per fortuna l’ostetrica, che in fatto di misericordia si dimostra sicuramente più dotata di chi dovrebbe averne per vocazione, la prende sotto le sue cure. “ Vuoi tenere la bambina o vuoi affidarla ad un istituto?” “ No voglio tenerla” “Se il padre non lo sa dovremo metterle il tuo di cognome, e come la vuoi chiamare?” “Angela!” “Per le pratiche del comune mi arrangio io, non ti preoccupare” Diomira le è grata, ma si domanda quali pratiche avrebbe dovuto fare in comune.

Quando ritorna a casa con la bambina si sente spaesata, questa bambina che continua a piangere, non sa cosa fare. Solo quando arriva Carla la bambina si calma. Lei la prende in braccio, si informa da Diomira quando è l’ultima volta che ha mangiato, che l’ha cambiata, ricevendo delle risposte vaghe da una Diomira nel suo angolo preferito con il fotoromanzo in mano. Carla prende in mano la situazione e ricorda a scadenze precise i doveri di madre a Diomira. Le mette la sveglia per ricordarle gli orari delle poppate durante il giorno e la notte. Fa da madre a Diomira e anche ad Angela. Provvede a comperare dei vestitini e impone a Diomira di cucirne degli altri. Giorno dopo giorno, Carla si rende conto dell’incapacità di Diomira di fare la madre e che se vuole che la bambina sopravviva tutto dipende da lei. 

Verso fine febbraio, qualche tiepido raggio di sole comincia a far capolino sotto i portici di san Rocco, e così, a mezzogiorno, prima di cominciare il proprio turno serale, Carla porta a passeggio Angela. “ E brava non mi hai detto nulla che avevi un figlio!” Con un grande sorriso Danilo avanza sotto i portici verso Carla. Anche Carla sorride e le sembra ovvio restare allo scherzo di Danilo: “Non è quello mio, questa è Angela, tua figlia”. Danilo impallidisce e il suo sorriso si spegne. “Mia figlia, Angela!” Carla intuisce solo allora. “Diomira non ti ha detto nulla, vero? Ho insistito che te lo scrivesse ed ero convinta l’avesse fatto!” “Carla, sto cadendo in un baratro, ho le gambe che mi tremano, non so cosa fare” Lei le prende la mano e gliela fa appoggiare sulla guancia della bambina. “Almeno tu dalle un po’ di calore, Diomira non è in grado di farlo” “ Se me ne avesse parlato avremmo potuto decidere assieme cosa fare. Ora non so proprio dove sbattere la testa, se non me l’ha detto un motivo ci sarà. Spero sia in grado di spiegarmelo, a volte è così sprovveduta,  so già che per lei non sarà semplice. Ho accettato la sua semplicità, il suo non capire il mondo come gira, perché sto bene con lei, ma questa situazione complica enormemente le cose, è quasi irreale e inspiegabile il suo comportamento.”

Carla mette in braccio a Danilo la piccola Angela, apre il portone e entra in casa. Diomira è assorta nella lettura, non si accorge di Danilo che guarda sconsolato Carla: “Diomira, guarda chi c’è. Diomira!” Lei alza lo sguardo e lo vede, si alza di scatto per correre ad abbracciarlo, ma si blocca rendendosi conto che fra loro due ci sarebbe il corpo della piccola. Guarda Danilo ed incrocia il suo sguardo smarrito, deluso,  e  che chiede delle risposte. “Io per lei ci sarò sempre, quanto al nostro stare insieme devo riprendermi e pensare il daffarsi.  Al momento non riesco a capire il tuo comportamento nei miei confronti, non so se tu volessi proteggermi dalle mie responsabilità o cosa. Spero che tu riesca a spiegarmi.” “Mi sembrava giusto, non so spiegarti”. Danilo è combattuto tra l’abbracciarla, il perdonare tutto, creare una famiglia e il sentirsi tradito, escluso, il non poter costruire nulla con una donna così assente. L’orgoglio e forse anche la ragione prevalgono. Dà un bacio alla piccola e la mette  nelle braccia della madre ed esce dalla porta e dalla vita di Diomira. Carla piange pensando alle conseguenze per la vita di Diomira e di Angela, lei vede avanti. Diomira mette la piccola nella culla e  torna ad immergersi nel suo mondo fatto di fotoromanzi.

Capitolo XVIII

Carla si sente sempre più coinvolta dalla situazione, per molti aspetti assurda. Ormai Diomira è sempre più assente, più distaccata da Angela. Per lei esiste solo la lettura, le sue storie fotografiche. “Non ne posso più! Ma come fai a non prenderti cura di questa creatura, ma non hai un cuore? L’istinto non ti dice niente? Mi sento accapponare la pelle quando la sento piangere, le darei il mio seno se potessi.” “Non so cosa dire, non so neanche di cosa parli quando mi dici che dovrei sentire qualcosa. Nessuno ha mai sentito nulla per me, perché io dovrei sentire qualcosa per lei” “Ma l’hai fatta tu! Ti è cresciuta dentro!” “Sì, mi sono accorta quando me l’hai detto tu, cosa ne sapevo io di come si fanno i bambini, pensavo si facessero solo dopo sposati”. Le liti sono sempre più frequenti e Diomira minaccia Carla che avrebbe portato Angela all’angolo della strada, il posto da dove venivano loro due. “Se fai una cosa del genere qui non metti più piede. Vuoi farle fare la fine che abbiamo fatto noi?”

Diomira ormai in cuor suo aveva preso la decisione. La piccola era un ostacolo alla sua vita.

Ai primi di aprile Diomira torna in sartoria. Si sono organizzate per la piccola. Trovano fortunatamente una signora che abita al di là della rete dell’orto, che può dare una mano per coprire gli orari in cui nessuna delle due è a casa. Carla quando esce per andare al lavoro porta la bambina alla vicina e dopo circa 3 ore arriva Diomira che la riprende. E’ una buona soluzione, ma sabato sera Toni chiama Diomira: “Questo è l’ultimo giorno che lavori qui. Non puoi essere qui e pensare alla piccola a casa, non puoi concentrarti sul lavoro. Queste sono tutte le tue spettanze” “Ma mi darà del lavoro a casa? Lei lo sa che sono brava” “Se hai una macchina per cucire se ne potrà parlare più avanti, forse, altrimenti mi dispiace, non si può fare nulla. Non faccio eccezioni Diomira, anche se sei la più brava!”  

Quella sera è forse una delle poche volte che Diomira sembra essere preoccupata per il domani. Non sa pensare al futuro, vive solo la pesantezza di quel presente, nella sua testa la soluzione è una sola.  

L’indomani, quando Carla esce per l’orario più lungo domenicale, prepara le sue cose in alcune borse. Poi prende Angela e compie quei pochi metri che separano la sua casa dall’istituto dove ha vissuto fino a qualche anno fa. Bussa alla porta a vetri e ad aprirle è una delle suore che l’hanno cresciuta. “Che ci fai qui Diomira? Spero tu sia venuta a salutare questa vecchia suora.” “Veramente, io” e così dicendo allunga la spalla dove tiene Angela come a voler porgere la piccola sulle braccia delle vecchia suora “Oh Madonna mia, ma ti rendi conto di quello che stai facendo? Pensavo ti avessimo insegnato bene a vivere” “Madre, io non sapevo che facendo così potevo fare dei figli, voi mi dicevate che si facevano da sposati. Io non ho capito cosa intendeste, ma non credo abbiano capito neanche le altre. Capisco che neanche voi lo capiate e che siete spose di Cristo, ma nella vita reale le cose sono diverse da come ce le avete insegnate voi” “Ti chiamo la madre superiora, vediamo se possiamo aiutarti in qualche modo”

La suora ritorna assieme alla madre superiora, che però si dimostra molto più dura e distaccata nei confronti di Diomira, la tratta chiaramente come una poco di buono e le sottopone le carte da firmare per poi sottoporle al tribunale. “Io però non voglio che mia figlia venga adottata, voglio solo che ne abbiate cura, io sono completamente incapace di prendermi cura di lei. Mi avete insegnato solo a cucire e ricamare. Forse mi sarebbe stato più utile sapere come accudire i figli e anche come farli i figli, così avrei capito come non farli. Se avessi saputo questo, ora non sarei qui a portarvi la piccola e inoltre non sarei senza lavoro” “Polemiche senza senso, vuoi addossarci le tue responsabilità, ti diverti e poi vieni qui a incolpare noi” “E’ vero mi sono divertita e molto, ma non mi sono sposata e secondo la logica che mi avete insegnato, i bambini nascono quando si è sposati, cosa dovevo capire?”

“Come si chiama la bambina e chi è il padre?” “La bambina si chiama Angela e ha il mio cognome, il padre si chiama Danilo ma il cognome non posso dirlo, è troppo famoso in città. Ha promesso che si sarebbe occupato di lei, anche se non sa di questa mia decisione. Vorrei che se dovesse presentarsi qualcuno di nome Danilo e che dicesse di essere il padre di Angela, voi gli permetteste di vederla e anche di uscire con lui, è possibile fare questo?” “Vediamo, lo sottopongo al giudice, non credo ci siano delle difficoltà, in fin dei conti tu lo autorizzi in queste carte, e siccome la patria potestà rimane a te, hai il potere di farlo. Ma non illuderti troppo, cara mia, questi spariscono e non si fanno più vedere. Poi se sono ricchi devono sposarsi con altri ricchi e non vogliono che nessuno scopra scheletri nei loro armadi”  

Diomira in ogni caso conta sulle parole di Danilo e tutto sommato si sente sollevata nel sentire che lui avrebbe potuto vederla. Firma le carte, e quasi come conseguenza, posa sulle braccia della suora anziana la piccola. “Vuoi darle un bacio?” Diomira si alza e appoggia le sue labbra sulla fronte di Angela, ci mette passione in quel bacio, quasi come   sognasse di baciare il suo Danilo. La piccola esce dalla stanza e sparisce alla vista di Diomira, che forse per la prima volta, sente come si stesse staccando qualcosa da lei. Forse un sentimento nuovo affiora in lei, molto timidamente, quasi senza far rumore, ancora troppo poco per chiamarlo senso materno.

Quando esce da quel luogo, sente una nuova leggerezza, la sua mancanza di senso materno ha di nuovo il sopravvento. Rientra in casa e prende le sue cose e lascia quella casa.  

C’è solo un posto dove può andare a bussare ed è da Norina. La trova in casa e la trova anche felice di poterla ospitare ancora. La casa è sempre più disastrata tanto quanto la sua padrona. Norina è contenta dell’arrivo di Diomira proprio perché la sua situazione di salute è molto precaria. E’ stata ricoverata per un bel periodo all’ospedale e senza tanta delicatezza, i medici le hanno diagnosticato una cirrosi che la porterà alla morte. Lei tenta di non crederci, dice che fanno apposta perché lei non beva più: “E chi ha più voglia di bere in queste condizioni, non riesco neanche più a muovermi, ho la pancia piena d’acqua, anche se ho bevuto vino, anche le gambe mi dicono che sono piene d’acqua. Continuo ad ingrassare e non mangio niente. Ah Diomira! Sono proprio messa male! Lascia stare il vino, se ci riesci, ascoltami!”

Diomira confessa a Norina che finiti i pochi soldi della liquidazione è senza un lavoro. “Non ti preoccupare, io ero in regola e per qualche mese starò in mutua e qualche soldo entra e dovremmo farcela in qualche modo”

Diomira non deve più preoccuparsi dei rumori notturni provenienti dal letto di Norina, anche se in verità Norina non riesce a dormire di notte, la malattia la sta portando alla fine inevitabile.

Passa qualche settimana e un giorno Norina comincia ad avere una crisi. Vomita sangue dalla bocca. Diomira non sa cosa fare, le altre donne le dicono di andare a chiamare il dottor Perin che ha lo studio in Piazza Biade. Lei corre su per la salita che porta in piazza, entra nello studio e passa davanti a tutti gridando. Il dottore capisce la gravità, chiama con il telefono l’ambulanza, si scusa con gli altri pazienti e si dirige a casa di Norina. La trovano ancora lì che vomita sangue sul letto. Il dottore non può far altro che aspettare l'arrivo dell’ambulanza e che Norina venga trasportata all’ospedale.

Dopo due giorni sopraggiunge anche l’encefalopatia, da prima causandole uno stato confusionario, per poi degenerare nel coma. Al quarto giorno Norina si spegne. Aveva 35 anni non ancora compiuti.

Diomira rimane così ancora sola, ormai senza soldi, in quella casa non può rimanere. Ha solo una cosa da fare prima di andarsene e partire da questa città. Con le borse in mano, va al caffè Garibaldi per parlare con Carla. Attende che termini il suo turno ed esca. Carla fa finta di non vederla, ma lei le corre appresso: “Carla aspetta, ti prego, ho solo una cosa da dirti e poi sparisco per sempre”. Carla si ferma e si volge verso Diomira. “Carla ti chiedo un grosso piacere. Informa Danilo che non ho dato in adozione  Angela, lascio che si prendano cura loro, che lo faranno meglio di una come me. Avvisalo che ho lasciato scritto che lui può vederla e anche portarla fuori se volesse, basta che si faccia riconoscere dalla Madre superiora.” Vorrebbe dare un bacio a Carla, ma si accontenta della sua promessa di contattare Danilo. Le due si allontanano, una sa dove andare, l’altra cammina verso la stazione. Decide di prendere il primo treno, da qualsiasi parte vada. Abbandona anche la città, un altro abbandono da mettere nella sua lista personale, che si allunga ogni giorno di più.

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